Paola è nata a Bergamo e insegna Letteratura Angloamericana all’Università di Milano. Ha pubblicato In quota (Interlinea edizioni, 2012; Premio Fogazzaro), la plaquette Spiazzi dell’acqua (pulcinoelefante, 2008), La memoria del corpo (Crocetti 2007; Premio Alpi Apuane 2008), Addio al decoro (LietoColle 2006, Premio Calabria-Alto Ionio 2007), L’acero rosso (Crocetti 2002; Premio Tronto 2003), la silloge Conoscenza della neve (Poesia 267, gennaio 2012), la silloge Transiti (Almanacco dello Specchio 2009), una silloge di poesie sulla montagna (Premio Benedetto Croce 2003), e numerosi testi in rivista (Il segnale, ClanDestino, Ciminiera, La mosca di Milano, La colpa di scrivere) e in volumi collettanei.È stata poète en residence al Centre de Poésie et Traduction della Fondation Royaumont (Parigi). Ha curato il LucaniaPoesiafestival (2005 e 2008). Fa parte della giuria del premio Subway-poesia. Traduce i poeti americani. Come studiosa è anche autrice di tre libri sulla poesia di Emily Dickinson, di Robert Frost e di Derek Walcott. Collabora a Poesia e a varie riviste di studi americani italiane e straniere.
Nell’angolo lumente
t’intravedo, rara,
liscia la pelle al volto.
Sorridi e non sorridi,
ma mi piaci e plachi
il moto errante del respiro.
S’è quietato, il tuo,
forse per sempre,
ma ti piace – pare –
il dimorare nel velo
sottile dell’assenza.
Non temere ch’io non temo
lo svanire del sentirti
e del saperti chiara
e trasparente d’aria.
Le volte che ho seguito con le dita
sazie il profilo di una spalla
che conosco, dove l’osso
sbalza appena alla fine
di un declivio lento.
Le volte che ho sentito quelle dita
cercare l’osso del fianco dove
amavano posare la mano
nella bella stagione.
Non le conto più. Le volte, dico,
che ti ho voluto tanto
da infettarmi il corpo.
Si era riconosciuto, salubre,
in quel tuo passo singolare
e un po’ inclinato.
È stato come
le altre volte. Ho bucato
la nebbia su per il monte
dove gela la pelle in superficie
se sudi. Ho ascoltato
il cuore palpitare
sui sassi.
Mi tenevan compagnia,
come al solito, i corvi.
Volano neri e superiori,
con rare grida improvvide
e molta stasi nel planare.
La sete e la fame hanno
nuove papille, in alto.
E poi c’è il tempo
e la pazienza di calare.
La danza delle anche
che han mangiato il moto.
E poi il riposo: il calore
che emana la carne
asciutta e intenerita.
È come essere pane buono,
quando non hai paura.
Pasta che non tradisce,
farina di grano. Lievitazione
naturale, indotta dall’uomo,
causata dal vento: che soffi o
non soffi è la sorte del suo stato
di grazia, non il tuo. A te tocca
restare: stare come una cosa,
che riposa mentre attende.
Una sostanza che aumenta,
e fermenta la buona speranza.
È il momento della rosa canina,
impudica e serena nei suoi petali
a ogni evento. Apre le braccia al mondo
senza dire. Non teme il treno,
la pioggia fitta che la finisce
e nemmeno l’uomo. Non sa arrossire.
Mantiene quel colore trasmigrante
di un incarnato invidiabile sotto
qualsiasi luce. Vorrei essere
rosa, tendente al bianco. Vorrei stare
in un punto qualsiasi di un rovo,
al picco della vita e poi finire
cedendo un pezzo di me, intatto, al vento.
Non mi desta stupore la bellezza
appesa a un filo. Lo fa di più
la gioia di sapere che è finita.
Vorrei dirti questo dentro,
questo invisibile equilibrio
che è fatto per scivolare
nell’acqua e tra le cose
e non sa opporre forza
alla forza, resistenza all’ostacolo
(non sa imporre sé alla terra).
Non ha soluzioni.
Vorrei dirti il desiderio
di questo odore del fico
fiore che passisce
un’intera estate
abbandonato oltre il muro
e questo selvatico fugace
che infesta i colli
e parla di qualcosa
che non si corrompe,
dentro, non cede:
resiste e fa di noi
quello che siamo.
La lirica è natura.
La stessa che mi abita
se metto con cura
un passo dietro l’altro
sull’aerea e affilata
cresta est del Lyskamm
orientale sul Rosa
che è rosso all’alba
sugli assi e le panche
del ponte, capanna
Gnifetti, tremila
seicento undici
metri di altitudine.
Lo spazio è esiguo tra
due abissi di errore e
non puoi sbagliare: è
la fine del respiro
ispirato di luce
in perfetto equilibrio
tra il bianco e il blu.
C’è solo un istante,
una posa, una dose
di forza e coraggio,
una presa alla picca
e una lucida mente
(chiara di spazio, silente)
per cogliere il moto
che compie la stasi
e la stasi che muove
avanti, in alto.
È un io che risponde
al suono del vento
chi sa come farsi
di pietra sulla pietra
di neve nella neve
d’aria nell’aria
e nota di canto
elevata all’evento,
distinta, adeguata.
Adesso
è bene puro.
Mai più
come prima.
Adesso è la sola
vita. Senza cura
che non bisogna.
L’ignoto. Consegna
al fato di ognuno.
Un dire.