Mauro Macario

Mauro Macario è nato a Santa Margherita ligure nel 1947. È poeta, scrittore, regista. Ha pubblicato dodici volumi di poesia: “Le ali della jena” (Lubrina, Bergamo 1990), “Crimini naturali” (Book editore, Ro Ferrrarese 1992), “Cantico della resa mortale” (Book editore, Ro Ferrarese 1994), “Il destino di essere altrove” (Campanotto, Pasian di Prato 2003), “Silenzio a occidente” (Liberodiscrivere, Genova 2007), “La screanza” (Liberodiscrivere, Genova 2012) Premio Eugenio Montale Fuori di Casa 2012, “Metà di niente” (Puntoacapo editrice, Pasturana 2014), Premio Lerici Pea 2015 per l’Edito, “Le trame del disincanto” (Puntoacapo editrice 2017 ), “Alphaville” (Puntoacapo editrice 2020), “L’opera nuda” (Puntoacapo editrice 2021), “Piccole Infinitudini” (Puntoacapo editrice 2022), e l’antologia tradotta in Francia “La débacle des bonnes intentions” (La rumeur libre éditions 2016). Ha scritto la biografia del padre “Macario un comico caduto dalla luna” (Baldini& Castoldi, Milano 1998), e un secondo libro di carattere privato “Macario mio padre” (Campanotto, Pasian di Prato 2008). Nel 2004 esce il suo primo romanzo “Ballerina di fila” (Aliberti editore, Reggio Emilia). Suoi sono i testi del libro fotografico “Fabrizio De André in volo per il mondo” di R. Kohl (Mori editore, Aulla 2001) e del successivo libro collettivo sullo stesso poeta in musica “Volammo davvero” (Bur,2007). E’ curatore di quattro antologie: due sulle opere di Leo Ferré: “Il cantore dell’immaginario” ((Eleuthera, Milano 1994), e “L’Arte della rivolta” (Selene, Milano 2003), la terza, insieme a Claudio Pozzani, sulle poesie di Riccardo Mannerini “Un poeta cieco di rabbia” (Liberodiscrivere, Genova 2004) e la quarta intitolata “L’invenzione del mare” (Puntoacapo editrice) vede 13 poeti liguri contemporanei interpretare il mito del mare. A parte è da segnalare un libro di carattere taoista “Tai Ki Kung –Alchimie in movimento” (Liberodiscrivere, Genova, 2014). Nel 2011 esce una sua traduzione dal francese di “Alma Matrix”, prosa poetica di Léo Ferré, per la casa editrice Liberodiscrivere.

Autopsia d'amore


                                   a mio figlio

Taccheggia lungo il corridoio
a passo d’uccello
come una cicogna cattiva
dal profilo di falce
a guardarla così è pure elegante
distaccata
altera
le mani da pianista
invece squarta
è una macellaia di Stato
seziona e ricuce
al mattatoio giudiziario
ligia al suo dovere
di operaia specializzata
alla catena di smontaggio
dove rottama le salme in esubero
senza fermare i ritmi di produzione

osserva distrattamente
- lei sì con occhi vitrei -
l’estraneo allungato sul tavolo
pronto alla mattanza
è nessuno
freddo e rigido
come un suppellettile
in una casa abbandonata
è nessuno
non appartiene alla madre
né al padre
è proprietà dello Stato
che ne fa libero scempio
e spettacolo didattico
per un loggione di matricole

ora lo gira su un fianco
poi sull’altro
sa bene il suo mestiere
la cicogna cattiva
col becco ricurvo
come un uncino da asporto
che fruga e saccheggia
un’identità sottratta al mio sangue
ad una carne condivisa nel crearsi
dunque anch’io vengo macellato
attraverso la mia progenie

il suo taglio blasfemo
lo fa uscire dal sogno
come un palloncino sfuggito di mano
e rincorso in quell’eco d’infanzia
rimasta nei tratti a mostrare la sua forza
contro la logica occidentale della morte
dove cattolici e laici si trovano d’accordo
a non rispettare il corpo inerte

profanarlo
con le sue chele smaltate
profanarlo
con asettica meticolosità
offende la sua anima terrestre
quello che ha vissuto
come ha amato
i suoi pensieri
lei offende il Tao
e se stessa
in cortocircuito
con l’armonia degli elementi
ma lo shen
non potrà farlo a pezzi
su quel bancone da pescivendola
dove lo ha eviscerato
e ripulito con la canna dell’acqua
come si fa al mercato a fine giornata

quel corpo è il corpo del mondo
adesso lasci fare a me
mi guardi
si fa così
raccolgo
non asporto
raccolgo tutta l’età
anno dopo anno
lo sguardo che aveva
la tristezza di solitudini sconosciute
il suo sopravvissuto odore di latte
le tragiche miserie che lo hanno abbattuto
il liquido lucente dei suoi occhi
e ricompongo
 
impari
è un’occasione per capire
un’autopsia d’amore

Gas nervino


C’è qualcosa che scoppia
dietro la cortina ridente
dei ministri televisivi
è la fusione fredda
dell’ottimismo comunitario
sulle reti a strascico
alle 20,30
uno zaino sospetto nell’etere
quando più di tre
è complotto
ma milioni davanti allo schermo
sono uno solo
il potere fa il suo mestiere
il popolo no
aumenta lo share
della sudditanza occulta
in diretta
tradisce se stesso
e i figli della borghesia
che accesero la fiaccola
tanto tempo fa
bruciandosi le dita
la giovinezza
la carriera
i neuroni
per vedere la classe media italo-americana
sfilare al Centro commerciale
al posto dei cosacchi in Vaticano

c’è qualcosa che scoppia
e che non scoppia
un nodo agnostico
che non va su né giù
anni indigeriti
rigurgiti periodici
per il sogno ulcerato
che sgocciola dal freezer
come un animale da sacrificio
immolato per niente
e che dovrebbe intenerire
invece no
anche a distanza
ancora si squarta
si asporta
si ritrapianta
nell’uomo nuovo
del millennio catto-informatico
ma il rigetto nega l’innesto
non sarai mai il programmatore esecutivo
ma l’hacker del disordine
l’hacker finale
l’intifada virtuale
che s’infiltra nel sistema
dall’interno
per implodere e rinascere
supernova
prossimo è l’incendio
dalle periferie degradate
alle residenze esclusive
dalle camere in affitto nelle retrostazioni
ai bunker dorati della viltà blindata
per trasformare il villaggio globale
in villaggi indiani
tribù frantumate
per sfuggire al centralismo
restituite all’autogestione
ricordando Pasolini veggente solitario
“credo nel progresso non credo nello sviluppo”
 
c’è qualcosa che scoppia
nei cellulari al plastico
nei computer antartici
nelle comunicazioni preregistrate
dove parli con nessuno
nelle concessionarie d’auto
su cataste di mercanzie
in promozione
in saldo
a rate
a tasso zero
offerte al telefono
consigli per gli acquisti
viaggi in pullman con le pentole
c’è qualcosa che scoppia
nella produzione dell’eccesso
nell’embargo dei talenti
nella pioggia acida delle immagini
a stampino industriale
nell’ipermercato scandaloso
dove si riproduce
la moltiplicazione delle acque minerali
e la vendita elitaria  del prodotto biologico
comune a tutti nell’Italia povera
ora nel plusvalore americano
applicato ovunque
da compiacenti collaborazionisti
senza più coscienza
della pozza amniotica europea

c’è qualcosa che scoppia
nel ventre infecondo
della solitudine terrestre
è un’infelicità atmosferica
che si respira come gas nervino
sulle autostrade
nelle fabbriche
con il rappresentante di aspirapolveri
che diventerà un serial killer
dei quartieri satelliti
per la gioia delle massaie
nel salto dal balcone
di un occupato flessibile
con figli a carico
e a discarico sottostante
il fondamentalismo capitalista
usa il forcipe per decapitare
i dissidenti nati dalla parte dei piedi

c’è qualcosa che scoppia
e crea una frattura geopolitica
alle falde generazionali
le prospettive capovolte
ci ammassano su fronti opposti
tra “farò del mio ,peggio”
e “sarò il tuo paggio”
difendere l’impossibile
o incrementare il fatturato
e la poesia si presenta
alla rampa di lancio
per cancellare dall’universo
l’uomo di Leonardo
e sostituirlo
con l’uomo del profitto
perché non vi siano equivoci cosmici

c’è qualcosa che scoppia
e scoppia nel silenzio
nel modo meccanico
di amori senza passione
come fare spinning
fumando un toscano
soffrire con distacco
addolorarsi con cautela
festeggiando l’istante
la morte a cui sei scampato
anche oggi
mentre intorno cadono come birilli
per cause naturali o virus letali
creati in laboratorio
come prove di sterminio
su africani inermi
nel loro paradiso
di adamo ed ebola

e c’è qualcosa che scoppia
tra l’amore adolescente
e il rispetto in vecchiaia
la macchina del tempo
non passa la revisione
bisogna rottamarla con pietà
distruggere la targa
rimuovere lo specchietto retrovisore
da lì emergono sempre
occhi celesti
labbra rosa
timide ritrosìe
improvvisi rossori
devi cliccare
salva con nome
eternare le portatrici d’acqua
nelle mutandine d’oro
e fare di quel pube
la lapide erbosa
della nostra sepoltura

La collina del belvedere




nel  giardino delle delizie
dammi  sepoltura  clandestina
nascondendomi così
ai  garages  pubblici dei morti
dove la folla silenziata
mi  è pur estranea
come lo Stato
che ancora più della morte
a  te mi sottrae

dichiarami scomparso
sui  verbali del nulla
fingendoti  donna tradita
e parla male di me
affinché i paggi neri
portino  altrove
la deferenza di  servizio
per  quel  sequestro di  persona
ordito da un mandante  intoccabile

dì loro che qui
è riserva indiana
e Santa Romana Chiesa
non entra
col suo turibolo di cancri odorosi
e la certezza  che l’utopia  inapparsa
debba  spalancare le porte
alla lugubre processione
di  impiegati mistici
venuti  a umiliarmi
con la loro assoluzione
non affidare le mie spoglie
a questa gente di Transilvania
che s’appropria  delle salme
per sostenere l’Opus Dei
con un macabro still life
se  c’è un Dio
è  la tua mano al crepuscolo
che carezza la mia terra
come  nudo  fosse il corpo
e ancora tutto in fiore

tu sola
hai diritto
di trovarmi rifugio
molto più a sud
dell’eternità  inventata
in onore alle etnie selvagge
che non sbattono su un carro
i bei resti dei tempi  andati
trafugarmi è sacro
se per reciproca appartenenza
legittimiamo i luoghi
del  nostro immaginario
da qui al muro di cinta
scegli un angolo ombroso
dove tu possa con i gatti
sdraiarti nell’ora magica
d’estate
e cura la vendemmia del  glicine
lasciando filtrare nell’erba
quei  rivoli viola
che mi travasano a volte
un’illusione di cielo

è bello immaginarti
in cucina verso sera
nel tuo scialle
infreddolita
lottare alla finestra
pensandomi  immenso
nel mio sottomare
da  non più trovarmi
neanche con le unghie
amore che non si dice in poesia
per timore di scomunica
adesso che è silenzio
qui davanti al belvedere
te lo dico senza stile
e depongo anche il verso
come ora  io vivessi
la vita dall’inizio

verrà un tempo
da  leggenda popolare
diranno sottovoce
è  la donna della casa sommersa
e quando le sterpaglie
saliranno alle finestre
leggerai nell’abbandono
la rinascita all’assenza
tu spogliati
vecchia e bellissima
e avanza in quelle onde
verso l’angolo ombroso
non temere di sparire
dentro la serra  fantastica
sirena e squalo
torneranno liberi
nell’alta marea

L'indecenza del pregare



Troppi funerali
s'accumulano
sul mio carnet
una messe di teste mozzate
da trapiantare come semi
per i cantori
della cieca speranza
tra poco stamperò
un nuovo calendario
con i nomi dei vivi
per censire i morti

anch'io ho camminato
sulle tombe
senza affondare
in quel mare necrotico
povero Cristo
senza resurrezione né causa
caduto su tutte le croci
per la sottrazione derisoria
dei pani e dei pesci
solo Lazzaro si è moltiplicato
e mi rincorre lanciandomi
le stampelle
un vero miracolo
uscire indenne dal cimitero
con la mia identità
da piastrina di zinco
spulciando vile
il rosario degli istanti

sgocciolano
dalle mie ciglia
le lacrime dei morti
come acqua piovana
dagli scoli del tempo
perché sia un pianto comune
questo infinito lasciarsi
a cui sopravvivono i morti
e soccombono i vivi
chiamandosi
da lontananze inaccessibili
dove trafficano le illusioni
di congiungimenti postumi
mentre sotto i miei piedi
insaccati misti
di agnelli sacrificali
vengono consumati
una fetta alla volta
dai gran sacerdoti
che gettano fango
sul fascino triste
di frattaglie divine
nell'assenza universale
di una autentica star
post mortem

troppi funerali
s'aggiungono
ai miei compleanni
invitati orizzontali
s'incrociano
con quelli perpendicolari
scambiandosi viatico e doni
tra una candela da spegnere
e un cero da accendere
qui
dal Primitivo Campo Nord
sotto rovesci autunnali
stappo e defalco
pensando sia utile
per l'equilibrio ambientale
ma per il mio
dovrei dimenticare
la matematica a perdere
il vero compleanno
è il funerale dell'altro

questo odore persecutorio
di fiori marci sotto la pioggia
pestati sulla ghiaia dei viottoli
col collo spezzato ai venti
sopra il marmo viscido
questo odore di cancrena floreale
sale dai sepolcri
s'infiltra nei loculi
con un alito fetido
di labbra sfaldate
che ti fa vomitare
l'anima
se ancora hai voglia
di parlarne
quando intorno all'urna
ciascuno pensa
alla propria dissoluzione
contagiato d'angoscia
per essere domani
cometa di Halley nei sogni clonati
di una fedele amante
questi fiori incollati alle scarpe
come se volessero scappare
e tornare nei campi
a rinascere per i vivi
che lottano
confrontandosi nell'oblio
con le mani sull'inguine
a stillare resine
dai corpi in amore

Made in Italy


Questo non è il mio paese
è una succursale americana
che ci addestra
alla rapina sanguinaria
ogni mattina
come scuola di sopravvivenza
commessi viaggiatori
di crimini neoliberisti
con tecniche di eliminazione
porta a porta
diamo in pasto ai nostri figli
sfrattati freschi di giornata
o stragi di famiglia
se il guadagno è insufficiente
a sfamare i cuccioli
con la sbobba digitale
non è il mio paese
non è la mia origine
è la fine di un orgoglio
nutrimento forzato al comatoso
un rigurgito mortale
che ci soffoca
alle soglie della vecchiaia
come un ventre che espelle
non per senso di nascita
ma per liquidare il soggetto
basta col sudario tricolore
che incarta gli umanisti
nel suo double face
a stelle e strisce
l’intelligenza preventiva
scrive no pasaran
ma è la stupidità che conta
per alimentare il moto perpetuo
dell’alternanza democratica
che ciondola
tra la silicosi del sogno
e lo sbadiglio dialettico
di un’intera nazione

il mio paese ha problemi posturali
che ne deformano il corpo
è la gobba di un’Europa
che a toccarla fa impressione
come un cetaceo
gonfio di putredine gassosa
e affetto da amnesia
soprattutto se Pavese per te
è un ciabattino del Trecento
un economista di Padova
o il segretario di Cavour
invece no ragazzo
fai lo spelling
e vedrai che Pavese era un poeta
perché una sconosciuta al tavolino
gli suscitava i Pensieri di Deola
e non il calendario Pirelli
Pavese era un poeta
qui lo dico e qui lo nego
non farne delazione
se troppo lo rimpiango
finisco a Guantanamo
perché è il passatista
che porta l’attacco
al cuore dello Stato globale
è lui il terrorista
in fuga verso il futuro
con il suo carico clandestino
di memorie a tempo
che esploderanno tra una folla di morti
facendo decine centinaia di vivi
questo non è il mio paese
è uno stivale chiodato
che ci obbliga all’abiura
a colpi di mitra
per il ripristino della morale vittoriana
nelle adunate oceaniche
tra San Pietro e la Conad
mentre l’etica governativa
si ferma al prodotto interno lordo
lordo di stenti e disoccupazione
alla rivoluzione si chiede
di far quadrare i conti
secondo i parametri europei

e non è più il mio paese
il paese di Luciano Emmer
le sue domeniche al mare
sono pellicole bruciate
nei ricordi degli italiani
come le vecchie case di Pekino
abbattute dalle ruspe
per far posto ai grattacieli
così oggi siamo qui riuniti
per dare un mesto addio
alle biciclette sugli argini
tra corse rincorse e risa
alle trattorie fuori porta
agli schiamazzi
di un’allegria popolare
sotto il sole
al giornale radio
che strepitava nei cortili
a mezzogiorno in punto
alle ballerine di avanspettacolo
prese a fischi e insulti
alla sottoveste color cipria
sui balconi
alla balera del sabato
volteggiante di sogni
sul ritmo della speranza
ai baci sotto il portone
di un’età irripetibile

ridatemi la mia lambretta
                         
                           voglio andare sulla luna

Mai più guegli amori


Le amanti perfette
che non tralasciavano nulla
nel darsi senza amore
con oscena maestria
quasi non le ricordo più
ma le ragazze pudiche
che stringevano le ginocchia
a una mano troppo ardita
senza concedere altro
che un bacio furtivo
non le ho mai dimenticate

Che si trattasse di candore prudente
e che la smania proibita venisse ignorata
per temuta indecenza
traspariva dalle guance arrossate
nei fremiti che scuotevano il corpo
era chiaro il conflitto
ma lottando sotto la luna contro il ventre impennato
l'istinto ne usciva sconfitto mortificato
e l’amarsi per sempre declinato all’infinito
affiorava tra occhi intristiti
già pronti all'addio di fine stagione

Le rivedo così
sotto il canneto del bar
nei pomeriggi di luglio
addossate a una canzone
in attesa che uno sguardo
tradisse il timido messaggero
che affidava ad un'altra voce
la sua pena nascente
e riderne poi con le amiche
la mano sulla bocca
la frangia scomposta
era fin troppo facile
fin troppo crudele
ma era il gioco dell'età
restavo lì
in balìa di scherni velati
con un bisogno d'amore
che in sé trascinava
un'inguaribile voglia di pianto
in fondo a una gioia malsana
e forse cercavo il rifiuto
per dare all'estate
un sapore d’autunno

E in quei tempi lontani
arrivando l’inverno
cominciava la vita a insegnarci
il senso naturale della perdita
quando la cassetta postale
diventava una piccola tomba
di promesse e sospiri
per questo dopo le mareggiate
si andava a vedere il mare sporco
e nel combattere i venti
-tre cerini per una sigaretta-
s’imparava la tecnica del ricordo
perché tutto si sarebbe perduto
da lì in avanti
e in quel paesaggio
il nostro  abbandono
si preparava al futuro

Ora salgo scale di palazzi fatiscenti
e busso alla porta delle figlie d’Oriente
per ritrovare in quei corpi sottili
le fanciulle d’allora
quel che un vecchio può dare sono solo carezze
ma toccare il ricordo è un’estasi triste
e ancora mi trema la mano sotto la luna
ancora trattengo alle dita quel profumo d’estate.

Mai più quegli amori
Mai più

Nessuno sul lungomare

 

Le ragazze che al sole d’estate
animavano i corpi di misteri smaniosi
si muovevano lente nei vestiti leggeri
e poco donavano alle mani frementi
già paghe del gioco crudele
di svelare un istante di segreti biancori
e poi riderci sopra scappando di corsa
ma in sere più ardite
le ragazze che ai riflessi lunari
s’arcuavano verso le stelle
accendevano piccoli fuochi
sulle umide rive
perché cieco non fosse il ragazzo
a frugare nell’ombra
e da quelle fessure al tatto dischiuse
un lamento sottile di foglie premute
si perdeva nell’aria
le rivedo talvolta e posso toccarle
al passaggio di nubi piovose
chiudendo gli occhi ai giovani odori
che il ricordo sprigiona come estasi triste
per questo d’autunno
i vecchi muoiono sulle panchine
con un grappolo d’uva tra le mani
quando le ragazze del sole e della luna
vanno in eclisse
e tutto per sempre si oscura

Pioggia a Big Sur


Credevamo di cambiare il mondo
con i sit-in di protesta
noi pacifisti
in fondo Gandhi ce l’aveva fatta
ma a noi non è andata così

allora ci siamo alzati in piedi
e abbiamo affrontato il Sistema
a muso duro
noi guerrieri metropolitani
in fondo Guevara ce l’aveva fatta
ma a noi non è andata così

poi abbiamo provato con la cultura
a infiltrarci tra le viscere del potere
a combatterlo dall’interno
sperando che implodesse
un giorno o l’altro
noi artisti impegnati
che predicavamo una società più consapevole
in fondo bisognava elevare il popolo
ma a noi non è andata così

adesso mi sono seduto di nuovo
e qui davanti al tramonto
non credo più
di voler porgere l’altra guancia
o far barricate
ma sempre più spesso
a quest’ora
ripenso ai ragazzi della mia generazione
a come i sogni salvano le persone
e le fanno a pezzi nello stesso tempo
anche in amore siamo stati perdenti
abbiamo cercato la più inaffidabile
quella che al primo sguardo
prometteva sicura infelicità
una tentazione irresistibile
per noi romantici di fine estate
diventati controvoglia
erotomani tristi
allora verso l’imbrunire
il senso della perdita
si fa largo in me abbattuto
e non c’è conforto possibile
all’inesistenza delle cose amate
le prime stelle e le ultime utopie
hanno la stessa luce morta
di un cimitero astrale
perché l’età della rivolta
duole come una costola infeconda
che non ha partorito l’uomo nuovo
ma solitari ai margini della vita
e ricordo così bene quelle facce
che se solo allungassi le mani
potrei toccarle al di là degli anni

succede poco prima di cena
quando piove a Big Sur
e alla mia età troppa nostalgia
fa male al cuore e poi non digerisco
chissà dove sono finiti tutti quanti
e perché nessuno telefona mai

è andata così

Salvare i padri


                                  a Cesare Pavese

Come ci manca
quel silenzio sdegnato sul profilo contratto
la severa eleganza di un antico rigore
lo stile di una solitudine che diventa leggenda
la dimensione morale delle scelte stoiche

nella sala da ballo
sulla riva del fiume
la cameriera danzava felice
s’era disfatta di quel tipo noioso
e la notte era lunga per gioire con altri
i miti in collina battevano i piedi
a sentire tremare la terra
sembrava che tutto l’universo
rullasse un accorato dissenso
il telefono taceva come un delitto a più mani
e nessuna coscienza ne era turbata
mentre morivi in bianco e nero
e il paese riprendeva a cantare
in un vorticoso girar di gonne
donandosi cieco al futuro
ma ancora per poco
insieme ai tuoi sogni
morivano i nostri
ignari un giorno di chiudere il secolo
al richiamo del sangue paterno
perduti anche noi
in desolati abbandoni
tra i versi dolenti
che non t’hanno salvato

quel paese non c’è più
ed è bene che tu non lo sappia
maestro d’orgoglio umanista
ultimo a uscire per vie traverse
quel paese d’allora
amato come un ventre fecondo
l’abbiamo visto demolire
un pezzo alla volta
come una salma riesumata
che si getta nell’ossario globale
l’abbiamo visto crollare
sotto i nostri occhi
insieme alle menti migliori
che ci hanno generato
adesso non siamo nessuno
nella spenta memoria dei padri
ed è l’ora di tornare in collina

“perdono tutti e a tutti chiedo perdono”

lo diresti ancora?

quanto ci manchi

Ai poeti tra le nuvole

 

Non perdere la tua indignazione
dietro versi tranquilli e insensati
che ignorano
l'architettura delle stragi
il palinsesto delle carestie
la cerimonia democratica
di una siringa letale
perché il braccio della morte
è anche il tuo
quando intingi la penna
in quel calamaio di sangue
che tanto ti ripugna
tu che nel sublime
vaneggi ricami barocchi
e sciacqui la coscienza
nel bidè dello stile
ricorda gli ultimi
che affollano la tua soglia
rovescia il calamaio
del salasso mondiale
in faccia ai monsignori
della poesia celeste
sporcati le mani
dentro le discariche abusive
della globalizzazione
dove s'ammucchiano le etnie minori
trucidate dal regresso
e che siano i tuoi versi
pelle e ossa
come gli infanti anoressici
per costrizione
afflitti da quel male che si chiama
Presidente
e spolpati dalla tua omertà
abbellita dalla forma
perché hai perso la tua indignazione
e giochi sordomuto
all'enigmistica poetica
tra le salme del Capitale