Mauro Ferrari

Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) ha pubblicato le raccolte poetiche: Forme (Genesi, Torino 1989); Al fondo delle cose (Novi 1996); Nel crescere del tempo (con l’artista valdostano Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2003); Il bene della vista (Novi 2006, che raccoglie anche la precedente plaquette). Ha inoltre pubblicato una serie di saggi di poetica dapprima apparsi sul quotidiano alessandrino «Il piccolo» (Poesia come gesto. Appunti di poetica, Novi 1999), poi confluiti nel volume Civiltà della poesia (Puntoacapo, Novi 2008). Nel settore dell’anglistica si è interessato di Conrad, Tomlinson, Hughes, Bunting, Hulse, Paulin e diversi altri poeti contemporanei. Attualmente è direttore editoriale di Puntoacapo Editrice, fondata con Cristina Daglio, e direttore culturale della Biennale di Poesia di Alessandria. Con Gabriela Fantato, Giancarlo Pontiggia e Salvatore Ritrovato dirige «Punto. Almanacco della Poesia Italiana».

Eigg (Un presagio di morte)


Ho visto l’isola. Sotto una volta
di ardesia e nuvole di gesso emerge
blandendo i flutti lattei di meduse
di fronte alle piramidi di Skye:
fosca, la sua scogliera tormenta
gli orizzonti, accompagnando muta
i battelli; gli sguardi dei turisti
vagano sperduti tra gli anfratti,
gli squarci, le cenge, i detriti e il volo
silenzioso di procellarie e sule.
Quando il battello passa, un poco al largo,
echeggiano la subbia e il mazzuolo dell’oceano:
atomi estirpati, l’eternità
superba che concede la sua pula.
Allora, negli occhi l’incomprensibile
ira senza fine, appresi il metallico
tuffo delle sule, quell’impassibile
discesa negli antri sottomarini
che imprigionano l’ultimo calore
dell’Atlantico: un laborioso guizzo
e abbandonano la scia del battello
con la preda, trascinate dai venti
ai balzi spettrali di Santa Kilda,
la stele funeraria dell’Atlantico.
Lenti avanzammo in quel mare opaco
giungendo a una cascata che scrosciava
improvvisa dal ciglio della rupe
come da un mondo incorporeo ancora
ma vivo che brulicasse dietro il crinale;
doppiato il capo, su pascoli radi
avvinghiati alle sue pareti ostili,
si eresse a un tratto la maestà di An Sgur,
sempre nascosto fra le nubi: l’acqua
scendeva per le sue pendici erose
nata dal cielo più che dalla terra,
e senza fine ricadeva in mare.
 
Sopra le rocce e il mare di quell’isola
cupa che il tempo incide e non intacca
vorrei innalzare un canto con la voce
di granito e il cuore ebbro di una sula,
tuffarmi dall’estremo della rupe
in fondo al mare: ma, mente tremante,
sapresti il colpo d’ala per salire
incontro ai mille nord dell’orizzonte,
il becco carico, ormai di fronte
alla scogliera fosca della Thule?

da Al fondo delle cose (1996)

Medita sulla Libertà


Ma poi l’assurda libertà, gli spazi
finti che al volo si offrono
indagatore di abissi, i cieli
sfregiati e i fondali inquieti
diventano questo piacere ottuso
di un pasto di rifiuti,
un festoso sciamare a questi
campi d’abbondanza dove il fetore
è l’aria stessa, immobile, la notte
esala lucori di metano e il giorno
ti rivela senza volo, stordito e sazio,
riconoscente e nauseato.

da Al fondo delle cose (1996)

Pensarsi liquidi


È questo il limite, credersi forme solide
e risentirsi per gli spigoli che s’urtano
e non combaciano; la nostra vita
balza dallo sfondo fuori fuoco,
i personaggi più non riconoscono il fondale
su cui si agitano, parlando senza intendersi.
 
Si cresce senza troppo merito
svolgendo la banale formula del nautilo,
che prospera in silenzio e grida sogni eterni:
ogni ritocco accelera lo scempio
e fa l’immagine più oscura,
la scena meno comprensibile.
E la stocastica degli urti,
le occhiate che s’incrociano
attraverso un tavolo come due spade
sono masse estranee che si sfiorano,
tangenze che si creano e deformano;
stridore di un tocco immaginato.
 
Meglio pensarsi liquidi, legami atomici più deboli,
quell’inumana miscibilità dei corpi che solo un attimo
un angelo in delirio può avere immaginato
chissà da dove cadendo, forse un soffitto di cielo,
e lui un alito soltanto, né pietra né acqua,
ariele senza superfici né liscia traslucenza,
ancora meno, ancora più, un altro stato ancora,
aria nell’aria; vinto dalla pietà, spinto a donarci un poco,
un poco farci essere di più.

da Il bene della vista (2006)

Ad Alberto Cappi


Hai mai avuto questo darsi sulla mano,
un dirsi che s’inaridisce piano
e deve compiersi nel tempo giusto
tuttavia, ancora fra i miracoli
che uniscono le notti ai giorni?
E non saperlo dire, non trovare
l’equilibrio fra radice e foglia,
sentirsi nelle tasche trucchi
miseri e sulla bocca un motto
che chiunque sa finire; quello
e nient’altro, le mani fredde
ad annaspare e l’imbarazzo:
«Questo è tutto» – che significa
«non ho più trucchi,
ma sono io l’uomo dei trucchi,
era il mio compito tradito, perdonate».
E senti il tempo che ti cresce,
l’incolmabile inchiodato al muro,
gli occhi affissati sopra, il vuoto
che si sbaratra e non sai
che fare e dire, ma sai bene – 
ed è la conoscenza di una vita,
che c’è un fare che si fa sapere
e dire, e ancora vivere, nell’ultimo – 
che altri hanno violato crune strette
per la stenta interminabile gugliata
che tu tenti: è questo che ti prova
e il cruccio che ti smuove, in fondo.

da Il bene della vista (2006)

A Cri, che ha visto il lago di St. Moritz


Ci guardano le montagne con occhi scintillanti – 
ciò che è dato è reso,
dice quel profilo inattingibile, voce da dentro:
il bene della vista e il bene della vita nel suo male
stanno su questa corda tesa, in equilibrio.
 
In questa cerchia che si specchia dentro il lago e in noi
– in questo vento che attraversa – 
nulla mai saprai per sommatoria o balzo della mente
degli intenti silenziosi delle sfere o della forza che ci regge – 
la stessa che ha aperto il lago, i monti e il vento,
e adesso gli occhi, su questa
in equilibrio corda tesa, offrendo e ricercando.

da Il bene della vista (2006)

La vista di Braies


La ragazzetta o giovane signora
non so dire tanto di lei poco vidi
all’alba tarda al lago incastonato
fondissimo di Braies – immobile
al bordo dell’acqua sul sentiero
che lontano forse svaniva fra gli abeti
 
la ragazzetta o giovane signora
immobile eternamente lì 
– tanto pareva attenta e attonita
sul nulla incomprensibile
al passare dei turisti – 
sull’obbiettivo della macchina
o forse sul fondale cui puntava
per quali non so dire apparizioni
– nessuno chiese e lei nulla disse – 
 
a lei dedico i versi
emersi in una stanza dove nulla
– eccetto qui, su questa pagina
ma solo come macchia oscura – 
potrebbe mai balzare su dal fondo
trota iridea o tronco anni sommerso
che improvviso chissà come e su che ordine
 
lento ritorna
e si fa ancora
naturalmente
ramo albero foresta
a Braies.

da Il bene della vista (2006)

Casa in collina. Pioggia


Nel punto in cui si abbattono 
la pioggia senza fine 
e i radi lampi del nulla –
un mondo dietro al mondo,
che urla in filigrana –
dove piangono due cipressi
e marcisce la stirpe dei frutti 
senza raccolto;
dove gli occhi di una figlia 
immobile in attesa 
sono fissi al vuoto 
contro un orizzonte chiuso 
dal muro della pioggia
e montagne logore;

nello stesso punto, 
ma in un tempo prima dei cipressi 
e della casa con le imposte sbarrate,
quando la roccia maturava
non vista da occhi umani,
la stessa pioggia e lampi uguali
con la stessa ira caddero millenni, 
e non fu fecondazione 
ma caparbio urlo del nulla:
un nome che si urlava 
senza fine dal profondo,
addestrando la propria forza 
a questo istante:
l’esatta combinazione 
di cielo e terra con la chiazza 
rossamente umana
che sullo sfondo avvampava
combattendo la tempesta.

(Non c’era nulla, forse,
soltanto la collina aggredita dalla pioggia
e un abito rosso contro il buio –
e lei stava aspettando sulla soglia
semplicemente le palme aperte al cielo,
un viso chiaro e vuoto come il diluvio
e la speranza accesa
per qualcosa che accadesse,
qualcuno che arrivasse 
o che tornasse – non la pioggia).

Poesia inedita da Vedere al buio

L’uomo di Google Earth


S’immedesima in lui, lo sconosciuto 
che non dovrebbe e invece
appare per errore non cancellato 
mentre mangia un panino
attraversando la strada –
uno dei misteriosi
che vivono negli interstizi 
e indecidibili compaiono
col volto rigato di lacrime
o incelestiato da un sorriso senza storia, 
chissà da dove cadendo per andare dove –

mentre un bozzolo li ospita 
di lava rappresa che non s’aprirà.

(Immagina allora un occhio
che lo registri nel ventre di balena
di ammassi compulsivi, i suoi nulla 
che lentamente diventano lui
prendendone il posto e il volto
se si distrae – quando 
non pensa strenuamente 
all’occhio altissimo 
infuocato che tutto campisce
senza vedere, tutto senza capire.)

Poesia inedita da Vedere al buio