Luca Mozzachiodi: ( Genova 1992 ) diplomato con lode al Liceo Classico T. Parentucelli, attualmente titolare di borsa di studio presso il Collegio Superiore dell’università di Bologna. Poeta e scrittore, lavora fin da subito nelle scuole superiori per le quali organizza letture e laboratori letterari rivolti principalmente all’approfondimento della maggiore poesia italiana ed europea (tra gli altri Shakespeare, Pascoli, Omero, Walcott e i maggiori poeti italiani del novecento). Partecipa attivamente a manifestazioni culturali e letterarie e collabora con varie associazioni culturali in diverse regioni, ha partecipato nel 2012 al festival Ar. Sa a Sarzana (SP) e diretto nel 2013 la rassegna di poesia giovanile a Bologna SpaziDiVersi; per il Collegio Superiore ha organizzato nel periodo 2012-2014 il ciclo di incontri Dialoghi al Collegio, che ha visto coinvolti molti critici e scrittori di primo piano. Ha collaborato alla realizzazione di spettacoli poetico musicali con il conservatorio di G. Battista Martini di Bologna e ha all’attivo un progetto di sintesi tra poesia e musica con l’Accademia di musica Beat-Bit per la quale ha scritto diversi testi. Recentemente ha volto la sua attività di scrittura e animazione culturale a temi politico civili, prendendo attivamente posizione attraverso l’organizzazione di letture e seminari durante diverse lotte sindacali nella città di Bologna. Si occupa di volontariato, antimafia e mobilitazione sociale con l’associazione PrendiParte, della quale è consigliere direttivo. Per i tipi dell’Editore Serra Tarantola ha pubblicato il poema Le strade di Gerico (2013) e L'arte della sconfitta, uscita per Qudulibri 2017.
Un dedalo di rocce spinte a mare
è il campo scelto: qui fecero
il centro del mondo temendo
di perdersi al barbaglio di aspra luce
nel mattino ignaro della sera
amara quando l’asse non si vede
all’orizzonte, qui il segno della vita
punteggiò i colli, poi il grappolo di case
si fece tentacolo giù fino alla riva
che dava all’altra riva dove simili
crescevano in sapienza e in fortezza
uomini temprati dalla fame.
Una, due, mille generazioni
dispersero memoria e conoscenza,
paura del solco scoperto sul volto
dell’altro e della voce e della sorte simili
per cui ora si va con gli occhi bassi
contando le pietre, lasciando i nomi
stringersi nel cuore alle cose;
ma qui ancora si può conoscere dal passo
sulla mulattiera l’andare del vicino
e diverso sibilare il vento tra gli olivi,
persino l’automobile, in corsa tra gli alberghi,
i bar, i ristoranti illuminati, scivola
tra i riflessi della via senza ferire
il segreto dello spazio, così barbarico, stringente
d’edere e muri eterni, rituale.
Non è gente, si dice, che il caldo tormenti
e il freddo non li stringe quasi mai
davanti al fuoco, salato è il vento
che prende il contadino nel suo campo
quasi su un balcone, balcone per il vento
è questa terra che non sa luce che sia luce,
ma sempre è luce scabra di roccia, luce
che inazzura il sole alle finestre, luce
verde di olivi dove pare tutto torni
come allora ora che qui non è
più soltanto qui, da quel momento
nel fango che una piena si trascina
se il vento soffia si potrà imparare
a morire e se sulle strade sassose
c’è il nome di tutti e tutti i nomi
puoi trovare incisi, storie, cose
dei morti e dei vivi,
nel fango
prendere l’anima da tutti,
da nessuna la vita.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
Lungo la strada che all’imbrunire langue
ferita dagli ultimi tiepidi raggi lo vidi,
camminava senza guardare e ogni tanto
incontrando una bocca tremula in preghiera
procedeva raccolto, ricordava io penso
di quando anche la sua perfezione si era
incrinata nel desiderio di pane e compagnia,
era angelo di terra, di quelli che stanno
in silenzio a scaldarsi alla fiamma dell’assenza,
di quelli che non ti dicono parola sognatore!
Procedeva per la via che perdevamo noi
parendo un poco più assorto e più lento
mentre i mesi, i giorni si portava dietro
e tutte le altre rovine senza voltarsi mai.
Non come me, uomo di incroci, amante
dello specchio, con passo lieve e fatale
non si voltava mai e tutto era per lui,
te lo segnai col dito ma tu, col mistico
peso che ti appartiene e ti rode le ossa
sulle spalle, gravata del tuo non saperti
nei molti tuoi nomi e tuoi sensi avanzavi
ansiosa di perdere il giorno e la meta.
Il mio braccio sì schiantò sul limitare
dell’ombra ingigantita all’occidente,
speravo di dormire, seduto chinai il capo
a salutare la tua sottile corona di sole
contando i miei morti sul palmo della mano.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
C’era un vecchio al mio paese conosciuto
per essere il più grande bevitore,
uomo avventato in ogni atto e senza
misura, capace di ogni scommessa,
sapendola già vinta s’intende, staccava
per ultimo le labbra dal bicchiere
tra i perdigiorno, nemico dell’agnello
e del maiale che adorava, del mollusco
stanato in una guerra tra gli scogli
saltando come uno scimmione, amico
del vino bianco o rosso che fosse,
il suo più caro aiuto nelle sere
in cui si sentiva un aedo e gli mancava
la parola, o così pensavamo.
Non si sapeva poi cosa facesse
o avesse fatto mai nella sua vita
e a chi chiedeva o a noi troppo perplessi,
col grattacapo a Luglio e il sole a piombo
sulla testa, rispondevamo per indovinelli:
Parla da sempre chi parla con la Luna
e il giorno ha il suo daffare ad aspettarla.
Non era infatti raro ritrovarlo
a notte fonda sul ciglio della strada
steso all’insù come una foglia morta,
o sullo scoglio, o sotto il porticato
dalle ombre spesse dove stava fiero
della sua forma così ben piantata54
e con orgoglio si toccava il naso
dopo aver puntato al cielo con un dito
sorridendo a chi lo riportava, narrando
con estro le gesta notturne e il De rerum
natura imparato a memoria
colorito più spesso, diceva, per dare
risalto al picchiarsi degli atomi,
un filo alla storia che non si reggeva
un po’ come lui e nessuno dei due
si sapeva far credere. Allora
non stupì affatto la sua ultima favola,
narrata anche a me che non c’ero.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
Un giorno era restato fino a tardi
sulla riva bassa dove la roccia in sabbia
si frantuma, ma ancora si contano
i grani e non arriva il reflusso dell’onda,
aveva atteso il temporale passandosi
la sabbia tra le mani, coprendosi a metà
per riscaldarsi quando più non c’era
il sole e il grigio si era fatto denso e scuro
poi chiaro al lampo e al sordo brontolio.
Un fulmine scoccato nella macchia
e un’alta colonna di fumo dal vento sospinta
sul mare, un incendio pensò, volle andare
a vedere quel punto toccato dal cielo
come se avesse mani e cercasse
tra i pini marittimi e i lecci una stella
caduta o fuggita, lo attirava
il segno di una legge che si frange
come la schiuma giunta alla marina;55
salto a salto toltosi le scarpe
allora guadagnò l’alta scogliera,
si ferì ai piedi per essere tutt’uno
con la terra e i rovi che fessurano il costone
gli punsero le mani fino al sangue.
Salì dal lato ripido, ormai l’unico
ai suoi occhi bruciati dal fumo avvolgente
e strisciò di rosso ruggine il cammino,
oggi direbbe forse per tornare.
Ancora bruciava un lentisco tra i rami
schiantati e il crepitio di foglie,
il fumo lo rodeva sotto gli occhi,
la cenere impastava il sangue ai piedi,
ebbe paura, bruciava il lentisco e l’acre
odore delle bacche lo stordiva;
toccò quasi la vampa poi ristette
il vecchio e allora si guardò la mano
solcata d’azzurro e di rosso, la pelle era tesa,
scavata d’ombra segnava l’ultima
età del possibile. Fattosi forza ridiscese,
raccolse terra e sassi e li ammucchiò
a monito e memoria di quel luogo
dove il battere del frangente era diverso
per chi aveva imparato un’altra legge
del mutamento, dell’opera non vana
cara all’uomo ed alla sua fatica.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
Raccontò dell’accaduto nel paese,
nei borghi vicini e in quelli dell’interno,
negli alberghi persino, per qualche turista56
svagato amante dei dialetti aspri,
ma preferiva i pulpiti di sempre:
la botte alzata in piazza come fosse
il Quarantotto, le case del molo basso
dove la sera appende le sue ombre
intorno al lucernaio, ma soprattutto i bar
che danno sulla strada e sembrano
chiamare i viandanti con le sedie in legno;
là nei suoi bar aggiungeva il sermone
alla scommessa e alla spacconata
tra due bicchieri; tradire le cose
gettate tra due muri, filare senza posa
tra due specchi per meglio controllare,
non troppi né pochi mai due
come gli occhi, due come le mani
ecco l’errore, diceva, non così,
no, ma l’onesto imbroglio del bandolo,
lasciare un nodo all’opera dell’uomo
perché l’intrico poi sia solo nostro.
Proseliti non fece mai tra i sarti,
qualcuno venne a lui dai pescatori
sognando qualche rete dalle maglie strette,
lo fecero pescatore, ma in mezzo alla tempesta
non era quieto e preferiva camminare
sul bagnasciuga secondo il vecchio vizio
guardando da riva le onde urtare i pescherecci.
I giorni andavano e la gente disertò
col tempo le piazze e le strade lasciandolo
a parlare solo e a bere fino alla sera
in cui meditando i suoi atti passò
al suo turno il bicchiere e più non bevve,
il grande bevitore aveva perso;
pagò come doveva, gonfiò il petto57
e poi disse il vecchio con voce di tuono
«Andrò tra di voi con i palmi forati
e il sangue aggrumato tra i piedi».
Fu rivisto una volta tornare dal mare
verso il borgo con la terra sulle scarpe,
i bar non chiusero per un cliente in meno.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
Lo incontrai alla stazione, io tornavo,
avevo molte idee a quel tempo, sposare
la figlia del pasticcere, piagarla, farle male solo
quel poco perché restasse gravida
almeno lei, rilevarne l’attività
e fare dolcetti, essere amico degli uomini,
andare ogni giorno a prendere l’acqua
dal pozzo in giardino quando si ha sete
e un po’ anche senza per metterla da parte,
ma bere l’assenzio nel sottoscala
dove non vede chi va su e chi scende.
Tornavo. Fumava vicino al binario,
lo vidi, mi vide ma non salutò.
Violai spezzandolo l’anello del suo fumo,
mi raccontò la storia a mezza voce poi disse «Ho vegliato
le notti serene, ma non bastava,
a che ora passa il treno per Masada?».
«Le coincidenze, le congiunzioni ronzano
sul capo come vespe; perché
non mi chiedi la mano che si gioca
a mazzo calato, le carte immarmorite
sul tavolo senza un soffio di vento?
Non è tempo di pendole e orologi
altro non so, non sono un impiegato58
delle ferrovie e voi fumate troppo».
«Lo sai nella mia vita ho sempre
esagerato in ogni cosa,
ho detto due parole come gli occhi,
come le mani se dovevo dirne una.
Troppo silenzio adesso e sono fioco».
Scusandosi buttò la sigaretta,
la spense con il piede e se ne andò
portando in mano la bottiglia vuota.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
Una discarica vicino alla stazione
piena di cocci e di container che sempre
da bambini si vedeva, un luogo
di luce rugginosa che ribatteva
sui copertoni e muta trascolorava,
da lì non ti sei levata per impedirmi
di scendere o salire o di voler
riprendermi il mio vecchio cannocchiale
che fa più lunga l’ombra delle cose
per quell’antico gioco di veggenza
da te mutato in fuoco delle forme
che si torcono, si sfanno e si compongono
nel tuo caleidoscopio.
Lo porto come un dono od un rovello
nello zaino tra le maschere e le lettere
non spedite, per via mi viene in mente
che di tutti nessuno in quella landa di rifiuti
tante volte trascorsa aveva sostato;
vicino alla morte più non si vede morte,
diceva un poeta, ma siamo cresciuti,
non è più il tempo che si tirava a sorte
il caposquadra per giocare agli indiani.
Oh essere vicini alla natura,
macchiata solo dall’indifferenza!
Ma giù per questa china che non sali,
è qui che la natura non ha parte
e la tua assenza fa paura.
La vecchia discarica delle vecchie carte
dove cerca la lucertola un sole scolorito,
dove il ricordo tortura un grumo di larve
tra i rottami che impiastra il nerofumo.
Scendevo smarrito senza riconoscermi,
senza poter decidere se andare
in fondo o se restare e sullo schermo
degli arrivi calò giù come un rasoio
la mano senza niente recidere;
capivo: più degli anni aggiunti al conto
ci invecchia il malumore e l’incompiuta
veglia senza coraggio lungo il tramonto
prima del Te lucis ante.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
Si vende qui e si compra a molto meno,
in queste terre di banditi e prostitute,
poca cosa è il frutto di una gente triste
con il solo frammento della sua legge arcana,
senso primordiale, sentore di pioggia e di polvere
che spingi alla stessa mensa il ladro e il derubato
e dai il pugnale all’assassino, godi dello stupro
e mordi al viandante le caviglie perché ferito
fugga incontro al sole; qui tutti stanno
a testa scoperta alla calura intenti
a fingere il loro sogno sulle soglie
delle case sempre vuote d’ospiti.
Solo si sente vociare alla piazza
del mercato dove ogni tanto muore
al palo qualche delinquente e si chiedono
l’un l’altro masticando furiosi il pane sospirato
«Hai visto tu passare l’uomo del palo,
quello che sta con i pugni insanguinati?».
Ma sono terre, queste, sul sangue cresciute, il segno
che non torna, il fosso che non sa uscita
loro non temono, il suono più antico
pur non essendo udito a loro venne
in eterna legge e se un mercante curioso
lontano dalla via maestra si spinge in questi luoghi
esausti e scoglie la lingua di qualcuno con il vino
gli dicono «Sì passò di qui, parlava, parlava tanto
e gridando come tutti se ne andò a Gerusalemme».
poi per una moneta aprono la mano
e per quel giorno sanno d’esser salvi
ma tu,
predica tu per le strade di Gerico e Cafarnao
dove la storia non passa, insegna il tempo
più lungo, quello che come il tornio rotto
resta in un sentore di polvere e pioggia,
ancora
pioverà sui tetti di Gerico e di Cafarnao.
Da “Le strade di Gerico” (edito da Marco Serra Tarantola editore 2013)
Venuti a nostra volta con il mattino in cuore
abbiamo imparato la storia sui libri a figure,
ripartito la terra sulle carte come tutti
tra i confini a diverso colore.
No. Non ci eravamo sbagliati;
puoi vedere snodarsi intorno all’autostrada
avvallamenti e confini e paesi nel nido di corvo
e fiumi e sui fiumi nascevano le città.
Da Babilonia e Ninive, a Lubecca e poi New York,
tutto meravigliosamente avevamo imparato
e come ci corrispondeva il mondo!
Poi imparammo le leggi dell’amore e del mercato
commerciando tra noi quel po’ di verità
conquistata e raccontandoci, chissà quanto presenti,
seduzioni, tradimenti e fedeltà.
Tenere in mano le foto in bianco e nero dei nonni
chiedendosi che notte sottragga il colore alle cose
per l’ultima volta fu
il pomeriggio della nostra anima.
Abbiamo aggiunto alla storia dei libri a figure
le leggi della causalità, tutto funziona,
è una merce più rara ma buona
adesso la verità.
Le stagioni delle colpe ci fanno più bianchi i capelli,
il male è stato fatto, noi non c’eravamo si dirà,
mentre New York si gonfia e Babilonia rovina.
Abbiamo studiato meglio le leggi dell’amore,
e le regole dei suoi duelli,
il mercato si è complicato,
Seguiamo la borsa a New York, le mosse della Cina.
Qualcuno non ha dimenticato le figure
e cerca tra le cause la bellezza,
altri cova l’amore per le soglie sporche
e lì nutre una povera saggezza.
Nelle grandi città sui fiumi scuri
ora sappiamo, ci sono posti per i poveri
e posti per i ricchi.
Arrivò poi un punto in cui ci siamo
chiesti chi abbia disegnato
le figure su cui abbiamo imparato
e questo punto fu la sera dell’anima.
Ci avessero insegnato a disegnare la storia,
a dare forma alla vita che si ribella!
La verità è una merce deperita.
Quanta notte è rimasta sentinella?
Copyright da L'arte della sconfitta, Qudulibri 2017
Sull’ultimo gradino a San Michele
si incontra questa vergine di stracci
muta, nell’angolo alla porta tiene
un bimbo mezzo morto tra le braccia,
sotto l’alzata gotica più tesa verso il cielo
ad ogni secolo di passione, all’addiaccio
passa la notte coperta dal velo
sporco, avvolta nella rozza geometria
di un poncio peruviano, il nero
delle croste che spegne l’allegria
dei tratti andini e l’aggroviglia al marmo,
nel ricevere la luce tra le crepe, la via
ti mostra con il dito scarno
poi con la dignità di chi non chiede
ti indica il punto meno alto
«Vous pouvez monter», si siede.
Rientrata nella scala come muschio
abbassa il viso se la porta si chiude.
Subito dentro ride un riso maschio
e paterno il sangue blu, prima di Dio la spada
difende il Belgio, qui non è più rischio
ma certezza che il nemico prende la strada
che porta alla frontiera.
Un tempo, pare dirti, tenne a bada
la furia di Lutero, dell’intera
Europa cattolica l’ultimo bastione,
secoli dopo nella Primavera
dei popoli in anticipo sulla rivoluzione,
padre di molti figli,
giardiniere della colonizzazione,
in giubba rossa vicino a padre e moglie
nel volto specchia ora l’età mite,
la luce del perdono a chi sosta sulla soglia.
Sulle statue scolpite
si abbatte come lama il mezzogiorno
nel corpo di pietra fruga le ferite.
Alzarono la volta e i contrafforti,
rimangono segni bruni
nel bianco che si spande attorno
sulle vetrate umane, sui troni
il potere che canta il suo poema
agiografico se ha gli stessi colori
dei santi, la stessa mistica pena.
Fratelli del re stanno gli apostoli
e l’oro che hanno ti dice la presa
del Reich non spezzò le costole
al Belgio non piegò la sua fronte,
esso ha intatto il suo posto.
Prosegui e si staglia un racconto
di dinastie, di successioni e guerre
sospeso tra il disprezzo del mondo
e l’occhio di bambino che guarda le terre
sconfinate all’ombra della croce
pacificate, fertili, perfette.
Come tutto trascende nella luce
del mito della sola razza umana!
Mentre passi sai che qui conduce
come te da una nazione lontana
il turista svagato, il pellegrino
l’unione della razza cristiana
che si ritrova nel vicino
avvento, espone il suo dramma
di pastori col bambino
e con pura coscienza la sua fiamma.
Se sei giunto alla croce non puoi dare torto
ognuno ha posto il suo come uno stemma:
dall’Angola, dal Giappone, da Porto
Rico arrivano capanne ed animali
a celebrare il dio morto e risorto
e in esso essi scoperti uguali
e divini, il proprio desiderio d’altra vita.
La storia scivola tra i particolari
se un cristo annuncia oggi la sua venuta,
c’è più speranza anche senza lotta
di classe, di popolo, di idea basta una muta
preghiera, la fede ininterrotta.
Puoi dunque non scoprire sulla razza cristiana
una memoria non meno incorrotta?
Sotto la piramide egiziana
che sta per la capanna in una mitica
commossa sincronia, per nulla estranea
la foto dei caduti che santifica
col bimbo e la madonna
i guerriglieri? Riedifica
con l’aiuto di Dio scrive una donna
sul dono filippino di lamiere contorte,
di case diroccate, senza grotta
senza pastori, senza re né scorte,
la firma americana sui rottami.
Betlemme agli squadroni della morte
e un bimbo in mezzo a sciami
di bambinelli, ladruncoli, calciatori
per strada lo vedono i brasiliani
e rasserena i cuori
una statua a metà, tra scherzo e amore
del Papa. In Kenya i signori
della terra hanno la ventiquattro ore,
non portano doni ma affari
i magi per un compratore.
Così come nemico nei safari
è l’inglese che viene sulla jeep
al povero villaggio di africani
senza nazione, nella greppia
fotografa il bambino e i demoni
mascherati che danzano sulla sabbia.
Visitatore di una potenza egemone
non credere se guardi passando
che tutto questo sia immemore
di te e non invece fatto
perché tu stesso possa riconoscerti
nella geografia dei passi, nell’intatto
procedere di marmi, stucchi, vetri;
tu sei di quei figli dell’Europa unita
dipinti a caso nei presepi ricchi
come una mera forma della vita,
per il potere indistinta
se può regnare o essere asservita.
La lotta per lottare è stata vinta,
dichiarata barbarica la rabbia,
ma la fame, fa fame non è spenta,
insegna a baciare la lebbra
della razza cristiana alle tue generazioni
Europa o avrai gente ebbra
di digiuni e barbari e sollevazioni!
Volto alla porta negli ultimi passi
soddisfatto per la costituzione
che sancisce la maestà come da prassi
e al popolo una storia di progresso
sorride Sua Maestà con gli occhi bassi,
con fare d’umiltà, di chi nel gesto
tradisce o mente origini borghesi,
pastore di popoli qui, signore di genti all’ingresso.
Pure scenderà dalle colline, dai paesi
cui si accede per carraie, con buoi,
con asini non diversi da quelli che vedi
se vai a San Michele, i suoi
pastori saranno pastori
non prescelti tra i buoni,
canti di guerra e lavoro i suoi cori,
la sua culla tra i topi, sorgerà
da una scuola di missionari,
o da una classe in una tenda, imparerà
le lingue del mondo con un forte accento
di Bardera o di Bogotà
senza chiedersi poi al momento
di incontrare i figli dei figli dei figli
dell’Europa a quale scuola l’insegnamento
della pietà abbiano appreso, gli
resteranno nemici nel voler servire.
O spargete a piene mani gigli!
Questo avrei dovuto dire
la volta che ad andare ero io
alla madonna che ci ha visti uscire
pronta a recitare la morte del dio
che aveva in braccio fasciato,
non c’erano passioni ma il piagnucolio
di nascite nelle navate.
Razza cristiana ecco i tuoi bambini
nascita in chiesa e morte sul sagrato,
ma io mi conterò tra gli assassini
scendendo verso la città di nuovo
ad uno ad uno lento i gradini
ho pensato durerà poco
il bimbo mezzo morto e poi c’è la bufera.
Sceso a passione consumata, a fuoco
smorente, si era ritirata nella sera
più generosa d’ombre la cattedrale
e la città si distendeva intera,
il centro ottocentesco, imperiale
nel lusso dei giardini, dei portici
soffocato dall’anello industriale.
Tutto è compiuto. A mala pena accortici
i figli dell’Europa prendono quanto resta
loro, strade con nomi di morti
a segno della storia, una pietosa voglia di protesta.
Copyright da L'arte della sconfitta, Qudulibri 2017
Questa seconda parola ti viene da qui,
dal letto dove lo hanno inchiodato
a ricordare le botte prese e date,
mischiando il pianto al sangue,
scordando la giustizia che ha lodato
L’uomo che parla non riconosce compagni
e un nome gli gorgoglia nella strozza
insieme al vomito, si ricorda bene
di fronte a chi è storpiato,
acceso così, di brividi e di segni.
Questa seconda parola non potrà essere buona
perché tagliente è il volto dell’amore
da mostrare alla vita che finisce
e anche nella gioia è la ferocia grande
dell’assenza che dei giorni ha fatto scialo.
L’uomo che parlava ora non parla più,
il suo verbo è disperso sulle mattonelle
con la certezza che nessuno basta a salvarsi.
Guarda: di due parole abbiamo consumato
un silenzio solo.
Da «Passione dell'Europa»
Una porta grande di marmo per far passare la peste
e i pellegrini che vanno a Santiago, questo
resta della storia a noi che siamo tutti estranei,
la memoria sembra andarsene in negozi
che passano più veloci della pioggia,
non si fa in tempo a ritornare ed ecco sfoggia
una nuova insegna l’edicola di sempre
chiude il locale famoso un tempo per gli ozi
dei cittadini bene e i mendicanti
ora hanno i capelli corti, discutono ai caffè.
La miseria ci stringe materna come l’ombra
intorno al focolare e ancora più la brama,
l’antica usanza di nasconderla ai passanti
ché non se ne possa sapere, poi viene
l’estate feroce di turisti, tutti gli anni
ci si scopre sempre meno e si comincia
a sentire fratellanza con le vene
dei marmi delle scale aggrediti dal muschio.
Qualcuno accetta, qualcuno corre il rischio
e spezza il pane della vita
negli anni Spagna, Ungheria, Russia o l’Africa lontana;
sono il riflesso della storia qui
perché non spera più di ritornare
alla palude malsana e all’innocenza
fatta in un tempo di esilio e di tana
Copyright da L'arte della sconfitta, Qudulibri 2017
Il ritorno che ci spetta è a primavera la fioritura
così come per noi fiorirono ferite, amori, pulpiti
che la vita pareva innalzarci sfidando la modestia:
scegliere si doveva qualche via. Allora per natura
ci si mostra diversi e si somiglia solo nella sorte.
È una faccenda stagionale qui la morte,
quella che tu che mi ascolti chiami morte
è per noi la crepa dell’intonaco, lo scricchiolio rodente
le tempie, la macchia che s’allarga
e che nascondi fino a farti cieco,
segni del disfacimento
che generammo e che ci hanno generati.
Non so quale epica narrarono a te
né se mai te ne narrarono alcuna
a me non raccontarono nulla, solo le colpe
di mio padre e del padre di mio padre
e di suo padre prima di lui fino alla settima generazione.
a noi non raccontarono nulla,
a marzo fiorivano i ciliegi, l’autunno gonfiava le viti
ci si sentiva ossa della terra.
Copyright da L'arte della sconfitta, Qudulibri 2017
Il giorno che scoppiò la guerra di Corea
era orlato di ciliegi piangenti battuti dalle piogge,
pensammo a Picasso e ad un tempo lontano,
ci si sentiva come il Giappone esotico,
specchiato nelle sue piante, come quelle nodoso,
complici ad esse per affinità ma più di esse
torti e disamorati.
Guerrieri quanto basta per non farci mancare
sogni premonitori prima dello scontro,
una notte non avevamo fatto l’amore
e mi ero alzato gridando «Che ne è
di noi? Quanto poco di ciò che avremmo potuto
essere tutti siamo diventati!».
Ma erano poche le pretese, differenziarsi,
prendere la strada meno battuta per arrivare.
Così facemmo il nostro cuore muto
e cogliemmo la guerra nel vento e nel rosa
dei fiori sparsi sulla strada sporca.
Il giorno che scoppiò la guerra di Corea
nessuno di noi forse si riconosceva,
soli, divisi e senza alcun sospetto
come alberi stanchi di fiorire cercavamo una goccia
protesi tra sforzo e aridità.
Il giorno che scoppiò la guerra di Corea,
noi dovemmo imparare il tempo da capo,
non più i ciliegi in fiore e i sacrifici rituali
nel mostrarsi come eravamo voluti.
Scoppiata la guerra nessuno conosceva la sua parte,
facevamo le prove del teatro.
Copyright da L'arte della sconfitta, Qudulibri 2017
Saranno quelli dopo di noi
o fra noi quelli invecchiati onestamente
a dire come perdemmo la giornata.
La scienza del dolore però ci venne
dall’animalità anticamente,
perciò senza scandalo via via scoprendo
le crepe nelle case, le falle nel sistema
andammo in rotta come vento e foglie,
le stagioni figurando
quando la storia era persa.
Ci accolga ancora col nemico alle soglie
dell’ultimo bastione un canto di sirena:
il suono degli allarmi o la campana
di raccolta ci ricordi tra le onde
la musica che uccide: l’infinita
narrabilità degli anni.
Farai meglio però a non darti nessun nome
perché ti prenderanno prigioniero.
Qui chiudo i miei consigli
ma muta la tua parte di tempo
e imparala bene e con pazienza
l’arte della sconfitta.
L’uomo libero è quello che progetta
sul retro delle stuoie nella cella
i piani di un’imprendibile fortezza.
Copyright da L'arte della sconfitta, Qudulibri 2017