Giuseppe Conte

Giuseppe  Conte (Imperia 1945), è autore di  raccolte di poesia, tra cui L’Oceano e il Ragazzo, uscita in Italia nel 1983 e ristampata nel 2002, e  tradotta  con prefazione di Italo Calvino in Francia (Premio Nelly-Sachs) e negli Stati Uniti, e Ferite e rifioriture, Premio Viareggio 2006. È anche autore di saggi, libri di viaggio e romanzi, tra cui Il terzo ufficiale (Premio Hemingway), La casa delle onde (Selezione Premio Strega), L’adultera (Premio Manzoni). Il suo ultimo romanzo è Il male veniva dal mare, uscito nel 2013. A lui si devono anche traduzioni da Blake, Shelley, Whitman e Lawrence, e due monumentali antologie internazionali di poesia. È autore di opere teatrali e di libretti d’opera. Ha collaborato a programmi di RAI1 e RAI2, e scrive editoriali e articoli letterari per diversi quotidiani. Ha tenuto conferenze e letture  di poesia in più di trenta paesi del mondo. Le sue poesie sono tradotte in tutte le lingue europee e, tra le extraeuropee, in arabo, turco, hindu e cinese. Suoi romanzi e racconti sono tradotti in francese, inglese, olandese, russo e greco.

Parole estranee a sua moglie

Saranno state le due o le tre l’altra
mattina quando sono entrato nel letto e ti ho
parlato. Tu dormivi  e ho premuto la
mia palpebra contro la tua calda. Volevo

dirti parole che ci sono estranee, quelle
dell’amore che eterna: era tragica la
mia resa: le regole del gioco cadute. Così
dietro le nostre palpebre non gli occhi, le orbite. Le

nostre dita di pietra e i nostri fianchi fondali e
laghi i nostri piedi fluiti e ormai viticci
e nidi per le civette. Non  saremo più
insieme. Non ne parleremo mai più. Futuri

venti soffieranno sulle nostre finestre dal mare
lontano noi saremo topi meduse

fiori

Metamorfosi d’amore

                                                         Though they sink through the sea they
                                                         shall rise again;
                                                         though lovers be lost love shall not.
                                                         (Dylan Thomas, “And death
                                                            shall have no dominion”)

Giuseppe era il mio nome di
cristiano, ora non ho più nome: sono
api e lucertole, pietre e mimose, il
mare:lei non mi potrà riconoscere.

Lei non mi potrà più dire: amore.
Potremo volare insieme all’alveare
del sole, vicini e sconosciuti, rovinare
in frane scoscese sulle spiagge

rocciose, essere  due conchiglie nel silenzio

del fondale.
                                    
                       Da L’Oceano e il Ragazzo,BUR 1983, TEA 2002

Il poeta

Non sapevo che cosa è un poeta
quando guidavo alla guerra i carri
e il cavallo Xanto mi parlava.
Ma è passata come una cometa

l’età ragazza di Ettore e di Achille:
non sono diventato altro che un uomo:
la mia anima si cerca ora nelle acque
e nel fuoco, nelle mille

famiglie dei fiori e degli alberi
negli eroi che io non sono
nei giardini dove tutta  la pena

di nascere e morire è così leggera.
Forse il poeta è un uomo che ha in sé
la crudele pietà di ogni primavera.

Le stagioni della terra

Ci pensi, non ho mai piantato un albero,
non ho mai avuto un figlio.
Tanto assomiglio al mare,
solitario, sterile.
Né un crespo cipresso, né un salice
umido e lento, né un’euforbia
diramata a delta, né un pesco
né un susino né un melo
ho mai fatto crescere, né un ramo
rosa o candido a marzo, né un piccolo
di uomo.

Come l’onda percuote la riva
senza fecondarla, senza lasciarvi
altro che alghe  e consunte radici
così –non lo dici ?- io percuoto
la vita.
Eppure l’ho amata, la
terra, ti ho amata.

Da Le stagioni, BUR, 1988

Essere collettivo

                                            Secondo il Socrate di Valéry ciascun
                                            uomo nasce plurimo e muore uno.
                                            Goethe invece divenne invecchiando un
                                            essere collettivo.

Ho traversato età, malattia, gioia,
libri, dolore, amore, mari.
Non sono ancora vecchio, né più
giovane, anche se del ‘62
conservo i silenzi e i desideri.
Chi sono stato? Chi sono?
Giusepe Conte, il bambino
bravo in matematica, in italiano,
debole al gioco del calcio, pieno di sogni,
l’adolescente sprezzante che baciò
Norma, che navigò da Le Havre
a Southampton nella tempesta?
Il marito che resta fedele
alla carne della sposa, il figlio
che vede il padre spegnersi, finire,
l’amico tumultuante, l’amante
freddo, retrattile, il viaggiatore
che conosce vulcani, deserti, oceani.
Coetaneo di Paride e di Elena
di Agamennone e di Clitennestra  
di Omero, Hafis, Mohammed, Goethe e
Borges, chi sarò alla fine, in quanti
moriremo?

Tutta la meraviglia del mondo

E’ come dici tu, dovrei ripartire.
Non sono mai stato felice in una casa.
Non sono mai stato felice in famiglia.
Non ho mai avuto nostalgia, quando ero
solo e lontano. Tutta la meraviglia
del mondo per me era la passeggiata
alta sul mare quando, i libri di scuola
in una cartella, a passo veloce
andavo, e inspiravo il vento
colore del salino e delle agavi
e fingevo di avere una ragazza
per mano:la meraviglia, la razza
forte dei sogni, i libri, il cinema,
i lunghi viaggi i treno,
le lunghe traversate dell’anima
ma mai i muri di una casa, mai.

Da Dialogo del poeta e del messaggero, Mondadori 1992

Sono qui seduto su un tappeto

Sono qui seduto su un tappeto
di foglie e fiori di primavera

e il mio silenzio è una preghiera
ed ho con me la coppa e il vino.

Se la mia Amata fosse vicino
se la sua bocca lucente fosse qui.

Il profumo dei suoi baci
è più dolce del gelsomino.

Dicono che sono saggio perché
conosco tutte le parole di Dio

e so che il suo volto non si vede
ma a tutti i roseti concede

la sua porpora  e il suo fuoco.
Ma io sono saggio perché bevo ,gioco

canto mentre il tempo ci rapina.
Quante rose si apriranno stamattina

e quante ne cadranno domani
o sotto le raffiche degli  uragani

avvizziranno. Il tempo ci affratella
noi che ci muoviamo sotto lo stesso cielo.

Non è la stessa per noi tutti quella
luna che sembra una melagrana

staccata lentamente dal suo ramo?
Ma io sono saggio perché amo

Da Canti d’Oriente e d’Occidente, Mondadori 1997

Atto di adorazione per la giovinezza

Credevi di andartene, giovinezza
come un ospite ingrato
che esce da una casa senza salutare
come scompare la brina da un prato
di montagna col passare del mattino.

Invece ti ho ancora vicino.

Credevi di fare al furba, di fottermi
dopo avermi tanto piagato
con la tua nevrastenia torbida
con il tuo desiderio inappagato
con la tua timidezza vergine

che sempre mi storceva la bocca.
Invece sei ancora qui, nonostante
i capelli, i peli che appassiscono
le unghie che si sfarinano e cadono
le ossa che faticano, ti tocca

restare ancora con me.

Ramo d’ulivo, stelo di papavero
sei mistero, anima, sorpresa
sei la bellezza vagabonda, illusa,
piazze di una città sconosciuta
percorse all’alba in fretta senza meta.

Credevi di andartene, ma io
ti ospito troppo bene in un cuore
feroce e ragazzo, che niente ha domato,
che conosce troppo bene la tua carezza
e come rinasci fenice dalle tue ceneri.

Resta qui, che io ti veneri.

Il cellulare lasciato sul copriletto

Sibila il cellulare
lasciato sul copriletto
nella mia camera d’albergo
simile ad un insetto
levigato, ingigantito.
Mi risveglio e lo prendo.
E’ la voce che attendo.
Ti dico grazie, vita.
Domenica mattina
e tu mi sei vicina
da un mare all’altro mare
va chiara la tua voce.
Forse tu mi vuoi ancora.
Miracolo che continua.
Luce di un’altra aurora.

Salmo

                                      Ad Yves Bonnefoy

Oso invocarti in questa Europa cieca
sfiancata da calura e siccità
corrosa da diluvi e frane,
continente di cenere e liquami
dove sono sovrani incontestati
Nulla ed Ipermercati.

Oso invocarti e sperare, oh Poesia.

Senza essere né Davide né Salomone
senza possedere né Betsabea né la Sunemita
e senza conoscere il linguaggio
degli sparvieri  e delle  formiche
io ti invoco, ritorna
ritorna come un maggio
luminoso-selvaggio
e come il primo raggio
soffiante –biancheggiante
dell’alba.

Ritorna, ritorna.
Ritorna foreste, anime, cattedrali.
Ritorna azzurri giardini orientali.
Ritorna , ritorna
Vergine, Venere, Africa.

Non sarai più la stessa
migrerai, muterai
e noi non ti vedremo come non vide
Mosé la Terra Promessa.

Ma ritorna, ritorna, oh Poesia.
Oso invocarti e sperare.
Seduto su una sponda del torrente in secca ad aspettare.
E ancora tra le rovine a cantare.

Nizza, ottobre 2003
                        
Da Ferite e rifioriture, Mondadori 2006