Gianni Priano

Gianni Priano è nato a Genova nel 1962. Insegna Scienze Umane in un liceo. Ha pubblicato diversi libri di poesia: “L’Ombra di un imbarco” ( Torino, 1991), “Città delle Carle infelici” (Cuneo, 1994), “Nel raggio della catena” (Borgomanero, 2001), “La Turbie” (Rovigo 2004), “rossocuore” (Genova, 2009).
Articoli, racconti, versi sono stati ospitati in diverse riviste e antologie. Nel 2001, con le edizioni de Il Ponte del Sale, ha stampato il libro di saggi  intitolato “Le violette di Saffo”. E’ coordinatore della redazione de Il Foglio, periodico della biblioteca di Tiglieto “Adriano Guerrini”.

(io amo i piccolissimi poeti)


Io amo i piccolissimi poeti .
Gli idraulici che ascoltano nei tubi
parlare i morti e il carpentiere in ferro
rimasto appeso a un chiodo a penzolare
a centotrenta metri e vide il mondo
come volando  per un bel quarto d’ora
e poi si tirò su con le sue braccia
perché i soccorsi tardavano a venire .
Mai scritto un rigo , non è del tutto vero
che è poeta chi scrive le poesie .

Ma tra chi scrive , tolti i grandi morti
mi piacciono i poeti disarmati
scarsi di scuole e di letteratura
mi piace che chi scrive le poesie
lo faccia perché è la sua natura
l’annotazione , la verticalità 
lo sprofondare nella fogna buia
il risalire con un alleluia
scritto in faccia , prima , e poi su un foglio .
Mi piace il poeta che alla fine
delle parole abbia solo voglia
di stare mani in tasca e naso all’ aria 
via dalla vanagloria letteraria .

(ma tu Gesù sei una barchetta a vela)


Ma tu Gesù sei una barchetta a vela
lo spicchio dell’arancia, la stazione
sperduta nel deserto, la canzone
che è ritornata in mente, la candela
sotto l’altare, la ragazza nuda
sull’erba verde, la risata cruda
del giovanotto appoggiato al muro
la sigaretta in bocca, il sopracciglio
ferramentato. L’ansia, lo scompiglio
di un tradimento consumato presto.
Il bambinetto che dice te lo giuro
l’attesa, al bar, di un sorriso o un resto.
Ma tu, o Gesù, spalanchi le stagioni
a calci, a pugni. Sei un ladro, un incursore
e sa di aceto il benedetto amore
che spendi e spandi e poi rimani muto
sei il salvatore ma ti serve aiuto 
ed il perdonatore assicurato
all’ingiustizia, il porco macellato
che dopo morto gli si prende tutto
e lo si sbrana con il ghigno brutto
di chi sa amare solo quel che ingoia
mastica, digerisce e il resto è noia .
Ma tu, Gesù, sei un ciclomotore
che sfreccia, poverello, ai trenta all’ ora
le ballerine, i maghi alla tivù
e lo sciroppo d’amarena, il gusto
di certi giorni che non vedrò più.

(mi piace se il dialetto di mia madre)


Mi piace se il dialetto di mia madre
lo trovo qui giù a Voltri per le strade
di asfalti e sale e tamerici e fumo.
Come trovare cuore nella testa
ed anche all' Ospedale un po' di festa .
Avevo ventun' anni, ero in vacanza
a Innsbruk, se non sbaglio o forse a notte
in una stazioncina bavarese .
E giurerei di aver sentito un tale 
un poliziotto o un vigile mi pare
dire una mezza frase in piemontese .

(quando uno muore si allargano le braccia)


Quando uno muore si allargano le braccia
si giungono le mani , qualcheduno
si strappa i ciuffi di capelli , altri
restano lì , come pesci lessi .
Li abbiamo visti , insieme all’obitorio ,
i morti stoccafissi  , ma davvero
erano stati  vivi questi corpi ? 
Perfino buffi ad imitare il sonno
beato , senza spasimi , lo stesso
sonno che finge un bimbo per scherzare
pronto a saltare su , a gridare “ bu !
Ci sei cascato , fesso di un citrullo ! “
Che cosa ha da spartire quel compianto
salmone salmicello rinsecchito
o  gonfio e viola , giallognolo , verdastro
blu , biancolatte , con lo stupore , il canto
davanti a un corpo nudo , a una sorgente
al cielo pirotecnico , alle onde
sbruffone , alla marmotta cecuziente?
Che cosa ha in comune quel fagotto
disposto al pianto , al legno della bara
lui che ci apparve come un ramo fresco ?
Che cosa se fai peso netto e tara
si salva dall’usura , dall’ imbuto ?
Cosa rimane in questa successione
di volti che il mio volto ha recitato
lungo la linea , il saliscendi , il fiume
che ci hanno detto di chiamare tempo ?
Cosa rimane di questo rimanere ?
Laggiù una ragazzina , alla fontana
Si mise sotto il rubinetto a bere .

(sarò che cosa?)


Sarò che cosa? Un vecchio che vi scappa
un palloncino non di bel colore
come uno sputo in cielo, un professore
che non professa più ma è professato
dalla professione di malato.
Sarò alla fine- in pieno- realizzato 
con baci sulla punta delle dita
che immaginerò, con la partita
accesa sullo schermo mentre spengo
l’ultima luce in me che sono stato
un accensore del mio cuore andato
una buona volta a quel paese.
Non fatemi funzioni nelle chiese
neppure nella mia ( che è la cristiana
a cui ho voluto bene, a modo mio)
ma salutate, sorridendo, Dio
col Padre Nostro detto da qualcuno
che lo sa dire. Salutate il mondo
con una strofa dell’ Internazionale
di Franco Fortini che vedrò
di sistemare dentro il comodino.
Non mi bruciate, non mi piace il fumo
di corpi umani, voglio ritornare
in pancia alla mia terra e verminare
comunemente, come a scivolare
con levità di soffione e piume
barca di carta che se ne va nel fiume.

(se guardo dentro)


Se guardo dentro, se mi guardo dentro
dentro quest ‘ oggi che finisce in treno
con sopra le ginocchia un libriccino
 ( io compro solamente libriccini )
azzurro e bianco su Cristina Campo
se guardo dentro al libro , al libriccino
trovo il commento sulla Tigre Assenza
se guardo dentro me trovo la Tigre
la Tigre Assenza che divora tutto
e sputa sui binari e digerisce
anche il digiuno , il silenzio , quel tremore
che ti pigliava i polsi e certe volte
sembrava Dio a tremare , come quando
quella ragazza (venticinque anni avevi 
l’età della vecchiaia gozzaniana )
girò le spalle e ciao se ne partì
per altri lidi e fidanzati e amanti
e la vedesti sbiadire là , a Multedo .
E tu morivi – tremavi – eri bellissimo
storto su quella strada che pioveva
e c’era anche la Tigre e quanta voglia
aveva della carne dei pensieri
tuoi su di lei , sul vuoto tutto pieno
adesso di ossicini e mozziconi
e stratagemmi ma la Tigre Assenza
da domani ricomincia a urlare.

(se sento dire t’amo)


Se sento dire t’amo, se a qualcuno
scappa da dirlo o se lo dice apposta
se sento dire t’amo  penso al pesce
preso dal gancio nel palato oppure
a quel pio bove da libro di lettura
di certi bisavoli inavuti
(chè i miei bisnonni facevano dell’altro
e i bovi li incitavano a madonne).
Se sento dire t’amo chiedo “cosa”?
mi guardo intorno, cerco di capire
guarda che sbagli tempo ( vorrei dire)
forse mi amavi “allora”. Un dì  mi amasti
e quasi certamente mi amerai
il due novembre portandomi un mazzetto
di palsticosi fiori e un moccolotto.
Che poi di questo amore ormai sappiamo
tutto il niente che c’è da sapere
i vecchi amanti del geniale Brel
che canta Filipponio in traduzione
i jeans sdruciti che stanno in Farewell
i menages di Bergman e di Verdone
lui, lei, l’altra ed io qui tra di voi
la coppia che è perfetta se si è in tre
(almeno in tre), l’infedeltà assistita
da certune mammane della psiche
che sanno niente di Catullo e RIlke
e tengono dei corsi all’ Unitre.
Se sento dire t’amo penso a te
ragazza bruna dei miei diciott’anni
all’albero del pepe, all’avventura
di quelle dopo e quanta meraviglia
quando nacquero mio figlio, mia figlia
e l’altra figlia, come se cammini
per Cornigliano e ad un tratto senti
come un profumo di miele da un cespuglio
dietro una grata nera e tenebrosa
( che incendio la bellezza e non si sa
se sia rivolta o consolazione
tiro di coca per pecore assuefatte
al tedio, al vuoto. Giorno da leone
tremendità detta con le buone).
Se sento t’amo penso a Umberto Tozzi
ad un’ estate di mille anni fa
mio nonno la chiamava “la Cinzana”
e c’erano le Rocche ai piedi suoi
io la facevo ridere però
niente di fatto ( neppure ci provai).
Se leggo t’amo penso ad un’età
di timidezza, di semi-paralisi
che al mio confronto una suora in dialisi
e di clausura ( per di più ) contava
nel suo carnet più baci assai di me.
Se dici t’amo penso a certe pippe
che era un delirio di ormoni samurai
( oh cari ormoni di quegli anni miei).
E tu Vittorio? Io? Oggi ventisei.
Tutte in un giorno? Certo! Non dovrei?
Si viene ciechi e sordi. Si vien scemi
si viene barche che non hanno i remi
nessuna voglia di fare qualche cosa.
Metti le tue energie nel greco antico
mi disse un dì mio padre un po’ da amico
ci siam passati tutti ma ci vuole
anche qui senso di moderazione
(lui era democratico-cristiano.
Ed io anarchico. Con il pisello in mano
e con l’amore non mi moderai.
Tu ti sei moderato? Quando mai!).
Se ascolto dire t’amo vedo noi
su una panchina, a Pegli, vedo te
Aurigo nel Novantatre
e Via Bianchetti che era il Duemilasei
vedo dei posti che ti ci porterei
se avessi forza e tempo. Cara lei
sapesse che sconfitta venir vecchi
e che liberazione, amici miei.
Se dici t’amo.

(ma un verso)


Ma un verso. Dove nasce? E perché mai?
Ho fatto versi come picchiettare
le dita sulla formica, il metallo
di un tavolino, al bar. Come la vacca
che rumina il suo fieno. Ho fatto versi
perché non ne potevo fare a meno.
Li ho fatti, forse, al posto di qualcosa
che non sapevo fare o non capivo.
E qualche cosa ho fatto, già che c’ero
per certificarmi di esser vivo
invece di far versi. Ho fatto versi
per il tuo nome bello e la tua blusa.
E quanti versi ho fatto e avrei dovuto
semplicemente domandarti scusa.

(di guerra ha fatto un anno)


Di guerra ha fatto un anno, sul confine
da San Bernolfo. C’era l’acqua fredda
e un cielo che sembrava divorarti.
E poi la neve. Ovvio: le marmotte
fischiavano come ti fischia un sogno
come a mandare segni. Nella notte.
Domenico dei Pliz, fedele al Duce
lo fu come alle donne o meno ancora.
Teneva giù in cisterna un disertore.
Non c’è idea che valga più del cuore.

(era già strano)


Era già strano, Nicola, quell’inferno
di vivi tra i sergenti e i capitani
ciarpame, marescialli sporcaccioni
ladri di mozzarelle e provoloni.
Te lo ricordi, Roberto quell’ inverno
di baionette innestate quasi come
spegnere un mozzicone contro il muro
e pioggia che si infila nella schiena.
Si andava a cena con le mani in tasca
ed un’eredità  di ferro ed ossa 
l’aria leggera da libera uscita
( chissà se avremo quell’aria
In fin di vita).