Gabriela Fantato

Gabriela Fantato, docente di Lettere al Liceo Linguistico Manzoni di Milano, poetessa, critica, saggista. Ha vinto diversi premi poetici, tra cui: G.Gozzano (2003 e 2009, inedito); Montale Europa (2004, inedito), Città di Tortona (edito, 2008); Lorenzo Montano (inedito, 2009). Raccolte poetiche: A distanze  minime, in “Almanacco de Lo Specchio” (Mondadori, 2009), ora in Nuovi poeti italiani 6, Einaudi 2012, Milano; The form of life, trad. E. Di Pasquale (Chelsea Edition, New York, 2012), Codice terrestre (La Vita Felice, Milano, 2008); il tempo dovuto, poesie 1996-2005 (editoria&spettacolo, Roma, 2005); Northern Geography, trad. E. Di Pasquale (Gradiva Publications, New York, 2002); Moltitudine, in Settimo Quaderno di Poesia Italiana, a cura di F.Buffoni (Marcos y Marcos,Milano,  2001); Enigma (DIALOGOlibri,Como, 2000) e Fugando (Book editore,VI, 1996). E’ presente in varie antologie, tra cui: Bona Vox, la poesia torna in scena , a cura di R. Mussapi (Jaca Book, Milano, 2010) e Meglio qui che in ufficio,  aforismi – epigrafi, a cura di A.Schatz e M. Vaglieri (Rizzoli, 2009). Ha curato con L.Cannillo La Biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani (Joker, 20 . Ha diretto per molti anni la rivista di poesia, arte e filosofia: “La Mosca di Milano”. Per il teatro ha scritto i libretti in versi: Messer Lievesogno e la Porta Chiusa; La bella Melusina; L’elefante di Annibale; Enigma e Ghost Cafè andati in scena nei maggiori teatri italiani, con le musiche di Carlo Galante.

(in viale sarca)

(in viale sarca)

la linea a perdita di sguardo
si dà  potentemente grigia
di cubi: facciata d'occhi
senza mani alla finestra

(superficie dissennata
nel ripetersi di case a deserto
in sempre passi, uno su uno
uno su mille: a sorte)

segnato a dito sta l'azzurro
quella bellezza che ci buca
nella voluttà che convince a vivere
proprio qui sotto, qui da noi in basso cielo
dove la vita come aria si consuma
e l'angolo ottuso della visuale  
s'affoga da una riva alla prossima piazza

arrabattati ai giorni invochiamo
di nascere al mattino, ogni mattino
nella sapienza della pioggia
a marzo sul tetto che la tiene
finché sarà l'estate a prenderla con sé
e stiamo tutti qui, qui buoni in riga
come infilati a tubo nel morire.

Da Moltitudine, in Settimo Quaderno di Poesia Contemporanea,
a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos,
2000, MIilano, pref. Giancarlo Majorino

Frantumi

I.
C'è un secco qui che taglia
ogni baia, ogni insenatura.
Le pietre si alzano a picco, cupole
di un santuario gettato al sole.
Vorrei sapermi inginocchiare
e pregare, vorrei un padre
per questi anni spezzati alla caviglia.

C'è una terra dura qui, distese di calcare
e granito, scogli senza pudore
- il dolore resta ruga di una roccia -
lascio che il vento intagli il mio corpo.
Sarò docile al blu come queste case
pazienti al vento che inventa la giovinezza
e chiama già qui la loro fine
mentre le guardo.
Lontano le stelle fissano
certe del disegno.

Da  Codice terrestre,  La Vita Felice, 2008, Milano
pref.di Milo De Angelis

Frantumi

II.
E’ così verde il mare, così dura
si getta dentro, a picco
la montagna - come le madri al collo,
senza misura e la vita è tutta
- un addio.
Il cielo arriva senza fatica sino
alle ginocchia, ma i sassi frenano
le caviglie e non c’è il coraggio obliquo,
la gioia di scordare.
Non c’è un gesto a fare la terra
meno breve. Solo l'acqua chiama
altra acqua. Mi faccio onda di un’onda
e non c’è nemmeno un’ombra
a consolare.

Da  Codice terrestre, La Vita Felice, 2008, Milano
pref.di Milo De Angelis

La forma della vita

Cammini sul ciglio della strada
dove non c’è riparo, né contatto.
Tutto è compiuto
in questa città che ha la forma
di ogni altra città a venire.
Cola la notte dentro gli uomini,
strade a corridoio
dove scivola il gesto che sa
e tace — la ferita.
Sarà questa l’ora di dirlo
il tempo immacolato e crudele?
L’infanzia orfana,
la casa — una guerra nella pelle
che tiene la memoria.

Le luci, le luci sono troppo alte
per vedere l’ombra,
la vostra — la mia e il sangue
nel canto taciuto ai figli
dentro la pagina.
I corpi hanno perso il sogno
nel tanto spaccare la vita
con le unghie, sino in fondo,
nel dirlo ogni volta — estinto
il sogno
come fosse per davvero,
per sempre.

Cerco l’abbraccio nelle piazze
smagrite, lo trovo la notte,
lo inseguo nel piano inclinato
degli occhi.

Da The  form of life- new  and  selected poems, Chelsea edition, New York, 2012,
trad. E. Di pasquale, pref. Giancarlo Pontiggia

(Te ne sei andato come chi deve)

                                                                        a mio padre
IX.

Te ne sei andato come chi deve
con i giorni dentro l’orizzonte.
Nel comando, dicevi, è sempre
esatto il passo del plotone.
Era quello il filo delle tue costellazioni.

Te ne sei andato nella domenica
sbagliata al calendario.
Sei dove non c’è più paura
e il sonno è senza voce, senza
quel tremare.

Te ne sei andato con l’obbedienza
della pietra scesa a picco sul fondo.
La mano agitata nella stanza dove
non potevi avere che una sedia
e gli occhiali dentro la paura.

E’ stata veloce la fuga nell’inverno
di Milano e senza neppure
il mare per dire – dove andiamo

Da Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012,Milano),  a cura di G. Rosadini
Dal poemetto A distanze Minime

(Togliere tutto, faccio spazio)


X.

Togliere tutto, faccio spazio
nelle stanze dove ci sono
ombre e solchi neri in cui sedevi
aspettando il tuo tempo.

Dentro il bianco scavo
– quel gesto con  l’indice
              dentro al buio.
              L’ultimo.

Lascio chiusa la finestra,
chiudo l’alfabeto dietro al vetro
per dire solo  il giorno
e forse non verrà.

Le cellule hanno sbandato
chissà dove, chissà come.
Resta quel posto dove
dicevamo – domani.

Imparo la promessa nella piega
e il corpo di fili e vene.
Il  battito non dice, non funziona.
Mai più.

Da Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012,Milano),  a cura di G. Rosadini
Dal poemetto A  distanze Minime

Trilogia delle cose perdute II.

Largo, sempre più largo
il capogiro a segnare traiettorie
in bianco e nero
tra il mercato e questa piazza.

Basterebbe un passo,
uno slancio basterebbe
per far tornare la luce nel giorno,
ma avanza un grigio denso
sino al mare.
La torre si alza improvvisa
dove il cielo è nuvole
e le ore erano un rosso sfacciato,
come i secoli dentro i libri di storia,
un conto senza  inizio e fine.


Non so più dire la piazza dell’estate
quando tutto brillava,
solo i vecchi sanno quei giorni
nell’impasto di voci e vino.
Lo tengono stretto a fermare
il buio che viene.    
Resta una foro dov’era la via,
le risate - un’eco nel bianco dei pomeriggi.

Attorno gli sguardi si voltano
al tempo sottile della gioia.

Da L’estinzione del lupo, Empiria, Roma, 2012,
pref. Elio Pecora

Trilogia delle cose perdute III.

Era la neve a disegnare la casa
senza confini, senza  tetto e le porte,
infinito il gioco a nascondino
dove si perde la memoria.

Il sole diceva l’ora di tornare
e l’abbraccio faceva
dolce la fine del giorno.

Adesso si può solo scendere giù,
dove la zolla è più dura,
dove le voci tengono aperta
la mano del tempo che accoglie i resti.
Là sotto cresce sempre l’erba
e le risate sono larghe,  
enormi sotto il cemento.

Da L’estinzione del lupo, Empiria, Roma, 2012,
pref. Elio Pecora

Lettera al mio minotauro

                                  Anne Sexton - la fuga

ostinatamente registro
il vibrare dei muscoli e quel franare di mani
dentro al cervello
- ti amo, esisto dentro un letto
di troppe lenzuola,
chirurgicamente ispeziono
i ventricoli, le lamelle del cuore
e il battere impazzito
all’arrivo di lui  
che mi prende bambina
in attesa di un abbraccio,

fisso  in verbali quei giorni
in cui un dio mi faceva bella,
fermo il tempo
- non lo lascio mai,
non mi lascio  un momento di pace,

guardo lo specchio oltre l’argento,
lo spio dentro, più sotto a scoprire
le ossa - la mia condanna  
nel foro, la pena , quel nascersi male

                                                            (ti scavi, ti scendi giù a fondo
                                                            apri  ferite  tra i sassi  e quel gesto,
                                                            basterebbe lasciare la preda,
                                                            quel sogno dei fianchi  di tua madre,    
                                                            quel tuo sogno bambino,                                              
                                                            basterebbe salir dove l’aria
                                                            è cenere e vento,
                                                            basterebbe perdonarti il sangue,
                                                            il tuo corpo di donna,
                                                            la voce di ancora, di sempre
                                                                                            figlia del padre)


risalgo dalla cantina alla camera da letto,
sempre scendo laggiù, ancora più giù
a toccare la macchia, quel mio
profilo amato
- mai nato, e il dito lo insegue
d'infinito

cancello quel segno di me,
quel lento farsi lontano
del corpo invecchiato
poi lo scrivo in faccia, lo conficco
nei denti e rido agli ospiti ignoti
domani sarò la più bella
- mummy, domani…
nella pelliccia selvatica appesa
al tuo cuore.
Domani, mummy…

Inedito