Francesco Macciò è nato a Torriglia nel 1954, vive a Genova dove insegna italiano e latino in un liceo. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Sotto notti altissime di stelle, La Spezia, Agorà, 2003; Matisklo, 2013; L’ombra che intorno riunisce le cose, Lecce, Manni, 2008; Abitare l’attesa, Milano, La Vita Felice, 2011. Sotto lo pseudonimo di Giacomo di Witzell ha pubblicato il romanzo Come dentro la notte, Lecce, Manni, 2006, di cui hanno scritto: “un bellissimo libro, coinvolgente, alto, misterioso, intriso di una idea forte, problematica e nobile di letteratura” (Giuseppe Conte); “il notevolissimo merito di Come dentro la notte è la reinvenzione del genere narrativo, tanto usurato soprattutto negli ultimi tempi” (G. Bárberi Squarotti). Un suo racconto intitolato Trieste, notte è apparso ne “il Giornale”, 7 novembre 2004, nella rassegna L’Italia raccontata dagli scrittori. Ha curato il libro di studi su Giorgio Caproni «Queste nostre zone montane», con una introduzione di Giovanni Giudici, Genova, 1995. Nel 2009 ha vinto il Premio “Cordici” di poesia mistica e religiosa, nel 2012 il premio “Satura città di Genova”.
Foto di Lino Cannizzaro
Mi spargi il volto di impiastri,
mi allunghi le ciglia
voltolando in un drappo
appena finito i miei fianchi.
Dicono che così
sembro della tua gente, Mira,
e ridono tutti senza capire…
Zelda ha raccolto tre mele
che in giorni di feste antiche i ragazzi
lanciano al di là della strada.
Sono un sorriso, un marito, una casa.
C’è un ciuco intabarrato
in una taverna di Pesek
dove parlano ancóra di campi
nazisti e di compagni morti.
Chiudo le tue mani
poi il tuo volto tra le mani.
Chissà quanti orrori
sul Carso, quanti amori
alle feste del vino, negli abbracci
freddi delle veglie,
salendo strade alte e deserte
sotto notti altissime di stelle.
da Sotto notti altissime di stelle (2003; 2013)
Ti chiama con il nome di tua madre
con fatica nel limo dei pensieri
e tace a guardarti sorpresa
tra i tavoli sgombri,
lungo un muro irreale di gechi
lunari, fermi all’agguato.
Dietro le tende sull’acqua una luce
tra le canne contro i pali
infraciditi, che sale dal lago
come un fiato sottile
che non dura sui vetri opachi
di una veranda ancóra aperta.
Non amo, non sughero d’esca
falciante, ma lame fonde di donna
a frugarlo come mani confuse
in ogni punto segreto, in ogni ombra
che un pendolo oscillando
lascia su di lei in una foto.
«Se l’amava? A Firenze,» mi dici,
«poi dappertutto sul Naviglio
più di quanto non mi ama…
Io quasi trent’anni oramai
che sempre più le somiglio.»
Poi giù in bicicletta
su nastri fruscianti di foglie e di rena,
un vento ferroso nella brughiera
di sale, di pietra...
da Sotto notti altissime di stelle (2003; 2013)
La solitudine è sostanza
femminile che non invecchia,
genera cigni bianchissimi
dalle carni nere e farfalle
che si innalzano in un disco d’oro,
rimane appesa alle parole
più semplici e leggere, seme
oscuro che scioglie nel cuore
quello che non sappiamo dire,
questo sole freddo di novembre
che ci intride e viene fuori
dal grigio a medicarci...
da L’ombra che intorno riunisce le cose (2008)
Dall’avamposto romano un commercio
di voci, un luccicare di uncini
oltre la radura… Da questi spalti
sulla mia lama sguarnita il riflesso
di un vólto che non mi somiglia,
io qui sul confine custode
senza un nome di uomini
e di cose.
*
Le cose… concrezioni di materia
incagliate nella memoria…
Scrutare il buio, la luce – una specie
di balbuzie nella veglia boreale –
la radura, il sonno della foresta.
*
Sotto una tempesta di pietre ho visto
accartocciarsi le legioni di Roma,
ma ora lo sguardo si ferma
soltanto su cose isolate… l’abside
bianca di una tenda, il dissolversi
di una nuvola, una zolla
d’erba sotto la neve.
*
Non mi restano che poche parole
e questa voce che non riconosco…
poche parole soltanto
in coda a quelle come sempre attese
nelle bussole segrete dei dispacci,
nel vuoto delle consegne.
*
Eppure su tutti questi oggetti
rimane qualcosa
di chi li ha custoditi, qualcosa
su queste mura disarmate
di chi le ha difese.
[...]
Un corteo che non ha pace, di uomini
e corvi oltre i pali aguzzi, un lamento…
Divento polvere se provo
a fermarli, questa polvere dura
che offusca il cielo e non si ferma.
*
Di chi sono queste voci
come anelli di vento nella sera,
queste ombre minerali
di predatori nella foresta?
*
Sono caschi bruniti, cimieri
di legioni schierate a difesa?
Sono orde nemiche che ghiacciano
le pupille, le piste luminose
dei daini, delle stelle?
*
Eppure un nemico invisibile esiste,
se lo sguardo si posa sulle cose
e si spegne… Palude la sostanza,
voce inconsistente, grumo
di nebbia in fondo al cuore.
*
Dovrei vigilare, svegliarli tutti
svegliarli tutti a colpi
di daga sul clipeo sonante…
Ma sta per finire
il mio turno di guardia, il dio
del Sonno mi assale, s’inghiotte
la mia mano pesante.
da Ink Tablets
NOTA
Tra il 1973 e il 1992 nel forte di Vindolandia, avamposto romano in Scozia, vennero alla luce alcune centinaia di ink tablets, foglietti lignei preparati per la scrittura a inchiostro; descrivevano la vita di frontiera in tutte le sue articolazioni. La circostanza che parole scritte su supporti deperibili siano arrivate fino a noi da una zona di confine, attraversando una coltre di secoli, mi è sembrata vicina all’idea di poesia, che estromessa dall’oggi, inattuale, clandestina, trova proprio in questo occultamento, in questo destinarsi oltre, la propria forza e la propria attuabilità. Come il poeta, il miles di guardia sugli spalti di Vindolandia non si sottrae al proprio compito, ma resiste in una specie di terra di nessuno e spinge oltre le proprie parole.
La vedi all’improvviso curvando
sul viadotto la città che si allinea
e non finisce e si accende
nella notte da ponente
fino al cielo. La vedi
sui cristalli appannati
oltre la patina di fumo
dei gasdotti che intride l’asfalto
e stringe da levante fino al mare…
La vedi a pezzi rallentando
sulla rampa di un autogrill, nel grigio
sottocosta un taglio, una sutura
corrosa tra Voltri e Sestri fino al centro.
Poi un liquefarsi di sguardi, un ingorgo
di mani sui marciapiedi
quando ti allontani… se ti allontani
e non sai che ci sei dentro…
da Abitare l’attesa (2011)
Questa mattina è il tredici febbraio.
Si scioglie contro il vetro la neve.
Vedo altra neve posarsi disfatta
su un giallo di mimosa. Il faro
è acceso da un capo all’altro
della diga all’imbocco del porto
sottovento, là in basso
da un capo all’altro contro il mare
bianco distrofico un lampo.
Ruota i secondi, scuote
lo stesso occhio bianco
che riaffiora qui davanti,
fermo, sul vetro.
da Abitare l’attesa (2011)
Sfasciati fondali...
Parole premorte come reti
stese sulle labbra...
Sempre a pieghe la memoria,
in un travaso di voci parete
tutta a spacchi e crepe.
da Abitare l’attesa (2011)
È già tutto dentro di me
il tuo viso che sfiorisce,
il mistero di insetti come nuvole
che offuscano il sole,
quest’albero di foglie dure
che non ci appartiene
e i suoi grandi fiori bianchi
dove risorge il mondo in un niente
e diventano mie
le tue scarne parole.
E poi, come su un foglio stanco,
quel tuo sapere sempre
di noi ciò che dobbiamo fare:
le piccole incombenze quotidiane
e le cose serie e importanti
che non riesco mai a ricordare.
*
«Le poesie non sono un’arte,»
mi diresti per aiutarmi un poco
a non ricordare. «Ti portano
a perderti quando le scrivi
e appena le hai scritte sono già tutte
perse in un’altra parte.»
Ma oggi con il tuo bambino
– lo tenevi sicura per mano
al riparo dal sole –
risalivi la sabbia come un’onda
che esce dal mare e non ritorna.
Lungo la riva intanto,
ignari di noi, i miei figli
scavavano fino all’acqua
una buca profonda.
da Ritratto di donna al mare con bambino
per mia madre a Sestri Levante
ut pictura...
La neve che cade...
che appanna i vetri
della finestra, i campi,
i passi sordi di mia madre...
la neve ostinata che salva
il torpore di un paesaggio
incompiuto ed elementare.
Nessuno s’affretta, ogni cosa
rimane immobile e indifesa
come un suono disarticolato
sulla pagina di un sillabario.
Non è poco questo giorno
assurdo e sconfinato
nella luce breve del solstizio,
non è follia nell’attesa
immaginare un altro giorno
che nasce e si consuma
senza perdita e senza profitto,
così inutile e umano.
Il giglio di mare è un fiore di sabbia,
di poca acqua, un nodo di salsedine
e risacca, è lama
che affonda nell’arsura di questa stanza,
bianca campanula che s’innalza
sciolta dai lacci nella calma
di una tempesta, dissolta
tra Lerici e Turbía in questo
infinito golfo di pietra
e di vento, nei calcoli scombinati
di formule floreali
che bloccano la memoria.
(Eccoti, non reciso,
un fiore,
che dura quanto durano la memoria
e le parole)
Anche le pietre hanno forma
di parole. Racchiudono storie
non casuali, sono dure
dove il vento è una carezza,
un vento di gelsomini e di menta.
Sono docile cuore di foresta
che si schiude a terrazze
e ricopre sulla spiaggia
questi blocchi di ferro e cemento
consumati dalla marea.
Ecco qualcosa che prima non c’era
in questo solco d’aria e di luce
tra Liguria e Francia:
il distacco pesante di un gabbiano
tra i resti di un mercato...
Un volo lento
da intercettare in prosa,
se le parole non ritornassero
tutte in una parola.