Fabio Pusterla

Fabio Pusterla (1957) vive tra Lugano e la Valsolda, e insegna letteratura italiana presso il Liceo di Lugano e l’Università della Svizzera Italiana. Collabora a giornali e riviste in Italia, in Svizzera e in Francia, e dirige la collana poetica Le Ali, dell’editore milanese Marcos y Marcos. Per alcuni anni ha insegnato Letteratura moderna e contemporanea presso l’Università di Ginevra.
Come studioso si è occupato di autori italiani dell’Otto e Novecento (Carlo Cattaneo, Carlo Dossi, Vittorio Imbriani e molti dei principali poeti del Novecento, Sbarbaro, Montale, Sereni, Orelli e i più giovani), di dialettologia, di pratica e teoria della traduzione e di insegnamento della letteratura italiana. Oltre a numerosi saggi di argomento linguistico e letterario, ha pubblicato con Claudia Patocchi il volume Cultura e linguaggio della Valle Intelvi (Senna Comasco, l983; ristampa 2006), e con Angelo Stella e Cesare Repossi l'antologia Lombardia (Brescia, La Scuola, 1990). Ha inoltre curato per la Fondazione Bembo l'edizione critica delle opere narrative di Vittorio Imbriani (3 voll., Milano, Longanesi-Guanda, 1992-1994). Nel 2007 ha pubblicato il volume di prose critiche Il nervo di Arnold. Saggi e note sulla poesia contemporanea (Milano, Marcos y Marcos); del 2012 il libro di prose e saggi Quando Chiasso era in Irlanda (Casagrande, Bellinzona). I suoi interventi sulla scuola e sull’insegnamento sono raccolti nel libro Una goccia di splendore. Riflessioni sulla scuola (nonostante tutto) (Casagrande, Bellinzona, 2008). Ha anche curato una raccolta di scritti dei suoi studenti liceali relativi alla lettura, con il titolo Grandi avventure di giovani lettori (Dadò, Locarno, 2012). Insieme a Elisabetta Motta ha infine dato alle stampe il volume Colori in fuga (La vita felice, Milano, 2012). Nel 2015 ha pubblicato Il nido dell’anemone, un ampio saggio critico dedicato a Philippe Jaccottet (Napoli, edizioni D’If).
Ha tradotto in italiano buona parte dell’opera di Philippe Jaccottet, firmando la Prefazione al volume Oeuvres della Bibliothèque de la Pléiade, e di altri autori francesi e portoghesi (Yves Bonnefoy, Corinna Bille, Antoine Emaz, Nuno Judice). È autore di sette principali raccolte poetiche parzialmente riassunte nell’antologia Le terre emerse. Poesie 1985-2008 (Einaudi, 2009). I suoi libri più recenti sono Argéman (Marcos y Marcos, 2014), Nella luce e nell’asprezza (Coup d’idée, 2015), Ultimi cenni del custode delle acque (Carteggi letterari, 2017), Variazioni sulla cenere (Amos, 2017); freschi di stampa, la raccolta Cenere, o terra (Marcos y Marocs 2018) e i ritratti critici Una luce che non si spegne. Luoghi, maestri e compagni di via (Casagrande 2018).
A sua volta tradotto nelle principali lingue europee, ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Montale, il Premio Schiller, il premio Svizzero di Letteratura, il Premio Napoli e il premio Dedalus. Su di lui è stato realizzato da Francesco Ferri il film documentario Libellula gentile.


Le pietre nere

 

1.

Lungo questo sentiero di silenzio:

pietre nere, pettirossi quasi immobili
su balze di muro o ringhiere,
lunghi gatti che guardano altrove.

E quando passi si stirano pigri,
i gatti, i pettirossi non volano via.

Come se tu non ci fossi. O fossi già
tu andato via.

 


2.

Se tu fossi una nave
adesso potresti inabissarti
senza rumore.

L’ultimo raggio di luce,
abbagliante sopra la ciminiera,
bellissimo.

Ma non essendoci nessuno qui attorno,
nessuno rimarrebbe abbagliato
stasera. Né mai.

L’ultimo raggio di luce non visto
sull’acqua che tra poco illividisce,
del piccolo lago.

 


3.

Inesistere: non è affatto male.
Si cammina su margini ignorabili
senza più nulla da perdere, imperfetti.

Appare meglio la luce e ti assale
più di sorpresa il fulgore degli oggetti
abbandonati, dei fiori negli orti sospesi, nei vasi.

 


4.

La luce sprecata, forse? Che esplode
fuori vista fuori via?

Il fulgore, appunto. L’inutile,
rutilante fulgore del nulla. Della cosa nel nulla.
Della cosa che sei. Ovviamente.

Greve stanchezza. Quelle foglie bagnate, sconvolte.
Qui nessuno ti sente, né nulla ci sarebbe da sentire.
Parola che si pente d’aver tentato di dire?

 


5.

Tutto ciò che è presente: materia
tattile,  odori  di legno e sottobosco,
forse sfacelo di corpi. Abitazioni crollate.

In un giardino cintato il turbinare
di piccoli roditori nelle aiuole: topi criceti
o porcellini d’India. Un minuscolo branco di carne.

Sterco. Futuro ossame.



6.

Queste pietre risalgono al nord
un nord tenace e deserto delle ere
che precedono tutto, ogni vita elementare.

Torsioni e torture senza grida
slogamenti della crosta della terra
movimenti del magma. Costellazioni nere.

Qualcosa, se le guardi, in te consuona.
Un altro nord, di non sopito gelo.
Bruciate, lande senza parola.



7.

Infine, pietre angolari per muri
cupi, quasi azzurrati d’orrore. Di case
o torri di guardia. Vedette armate
un tempo qui vegliavano, picche,
stridori.

 


8.

Passa di qui il cammino?

Non c’è traccia visibile, indizio. Vago
sospetto di luminosità tra le rocce,
tepore breve su certi lati della pietra.
Un passo sbagliato, una sosta:
non ci sarebbe più forza
per rimettersi in moto,
più nessuna energia
per respirare. Solo
restare, lasciarsi
cadere e farsi pietra
tra le pietre. Finalmente
uguale nella resa. E non si può.

Quando chiusa è ogni via si deve andare?

 


9.

Certe immagini antiche: sguardi
d’angeli, impossibili
armonie. Tenerne la memoria
dentro il nero. Nel silenzio
un cristallino riso, un’improbabile
stella. Rievocare, non fingere. E sentire
il lontano fluire dell’acqua. Un canto
nella disarmonia.

 

da Cenere, o terra (Marcos y Marcos, Milano 2018)

Cenere, o terra

 

 

1

Cenere, o terra: mite
alto fusto di platano
si staglia sul cemento che rinserra.

L’hai seguito come guardandoti allo specchio:
fuga di verdi, un’ombra di cinigia,
poi giallo cupo, nudo ramo e secco.

Ora piccoli bozzoli puntuti
Splendono quasi neri sopra il grigio.
Stelle di cenere, o terra. Giorni muti.



2

Notteri, un volo di braci
e sulle rive cenere, o terra
oleosa. Sonnecchiano navi alla fonda,
gli scogli non conoscono pace.

Ma dentro i cieli passano le frecce
rosate o si posano sull’acqua
di laguna. Sotto le torri di guardia e i tralicci
vegliano. Dove l’arco che le sferra?


3

È rimasto sul suolo un alone
tenue nella penombra del posteggio
sotterraneo. Un colore di cenere, o terra,
come una tunica smessa. Auto difettosa,
scarico? O forse l’ultimo angelo
ha preso il volo da qui, lasciando indietro
la sua ombra e ora stinto,
intangibile erra,
sordo alla pace e alla guerra,
perduto per sempre?

Senza di lui il cammino
è chiuso, la pista cancellata.

Non si potrà salire
non si potrà mai più?



4

Sarin in Siria, mar de lodo a Mocoa:
cadono gli innocenti
bambini. I loro corpi
giocosi adesso stanno come cenere,
o terra, su di te. Scompariranno
nel nulla in pochi giorni. E già i potenti
armano nuovi missili, carezzano
progetti e profitti di guerra.

Anfore sprofondate nella polvere
sopra il duplice mare di Tharros.


5

Victor vuole parlare
nella notte di Oristano
Victor vuole gridare
e mordersi la mano    .

Cenere, o terra. Questa è la sua vita
che non ha lingua per essere detta.
Gialla rosa imperfetta,
rosa miseria sfinita.

Si inchina verso la terra
e ci ringrazia. Viene
dalla Nigeria. Con le unghie si strazia
la pelle. Ha la voce rotta

e spiritata. Afferra
la mano che gli tendo,
benedice. Poi scende
con la sua bicicletta nella notte.

E lì svapora.



6

Festa di gialli, tra mimose e ginestre
e bocche di leone sparse a macchia nei prati
distesi. È una landa sterminata di colore
e in fondo il turchino del mare. Solo il colubro
che guizza e si rintana tra le rocce e le forre
parla di grigio, e la cornacchia ha le ali di cenere,
o terra che qui ti chiudi e ti accendi
in un’ultima vampa e scoscendi.

Più a ovest solo acqua, e lontana una sbarra
di bronzo che chiude il pensiero, basso fronte
di nubi. L’isola degli sparvieri
termina a capo Sandalo.


7

Caro Giovanni, non so se tu sia stato
sulle coste del Sulcis, dove il mare
può andarsene col sole, ritrovata eternità,
ma la terra è scavata di miniere,

piombo, carbone e zinco,
e la roccia conserva il sapore di cenere,
o terra bruciata nei cunicoli per spaccare i filoni,
le ossa dei minatori erano nere, scheggiate,

e la montagna oggi ha il fianco devastato,
il ferro è ruggine e l’antico capitale
ha scelto da tempo altri luoghi per produrre

ricchezza e miserie, le eterne
non eterne disparità,
il suo impuro moto.

Ma so che anche per questo, al tuo funerale,
si alzava su parole di Fortini,
strozzato il canto dell’Internazionale.


8

E poi: soltanto dal mare
si capisce qualcosa:
così scriveva in tenere
parole Betocchi anziano.

Tronchi secchi di colore di cenere,
o terra rossa di scoglio.
Le cose che la mano
di un vecchio vorrebbe toccare.

…Cuore di pietra
ventre di squalo, la vita.
Non musica di cetra
ma vento, e ancora andare.

Andare verso la rosa
sfinita all’orizzonte,
sotto quel cielo spoglio
di mare, abisso e ponte.


9

Alla Secca del Diavolo un cippo di granito
posato dagli amici in memoria di Tore,
laggiù partito per la sua deriva,
ora né cenere, o terra, né altro, perso in mare
e del mare ormai parte, in qualche forma
a noi ignota.

Appena dietro
splendono gli elicrisi,
immobili e sospesi i gabbiani del vento
guardano altrove, o gridano:
dal nero della mente
salgono le ombre dei dispersi,
i molti amici già andati.

Granito chiaro in mezzo a rocce bianche
erose dal salino e modellate
dal tempo.


10

Capre dai denti d’oro, ratti, un reame estinto:
forme di vita consegnate ai fogli.

Resta, cenere, o terra raggrumata,
l’alto muro di pietra sopra i mari
cangiante nella luce
che accompagna le sponde (d’Atlantide,
suggeriva una voce; quantomeno
un’essenza civile misteriosa,
che si credeva possibile, misteri megalitici).
Isole e onde
un tempo collegate, passaggi
e contatti precari. Tutti gli amori
tutti i dolori negati. E forse Ulisse
è passato di qui.

Sulla costa il cimitero dei naufraghi
è attorniato da un canto di scogli.



11

Il museo dell’Istituto Minerario
non ha cenere, o terra nelle teche
polverose. Mutazioni
di roccia, piuttosto,
calciti coperte di zinco, pietre
cariate e contorte, sezioni abissali
in cui ci guida un taciturno collega,
più Stazio che Virgilio.

Parla di pozzi, ripiene, gallerie,
dove animali del buio strascinavano carri,
mostra lo strazio dei teschi, puntute
picche, lingotti di piombo,
carbone ancora spurio, argento in foglia.

Sembra di udire il rombo
del silenzio in mezzo alle macerie.
Le cose gravi e serie
che cadono sul fondo e che si eclissano.

In un angolo, su sfondo quasi anonimo,
splende la perfezione cinerina
di una trilobite. Lungo le vie di Iglesias
corrono cani di piccola taglia.

 

da Cenere, o terra (Marcos y Marcos, Milano 2018)