Beppe Mariano

Beppe Mariano (1938) risiede a Savigliano, ma vive altrove, spesso alle falde del Monviso, sua montagna totemica. Negli anni Settanta ha co-fondato e redatto “Pianura” insieme con Sebastiano Vassalli ( che l’ha diretta) Giorgio Bàrberi Squarotti, Cesare Greppi, Raffaele Perrotta, Roberto Mussapi e altri. Dal 2000 al 2010 ha co-diretto con gli scrittori milanesi Maria Caldei e Franco Romanò, prima a Milano poi a Roma, la rivista “Il cavallo di Cavalcanti”. Ha vinto il Premio Cesare Pavese sia per l’inedito che per l’opera edita. Dopo aver pubblicato sette raccolte poetiche, nel 2007 nella collana Lyra di Interlinea pubblica “Il passo della salita“, con prefazione di Giovanni Tesio e Sebastiano Vassalli. Nel 2012 l’Editore Aragno ha pubblicato l’intera opera poetica con il titolo “Il seme di un pensiero (Poesie 1964-2011)“, presentata dal poeta Giuseppe Conte con gli apporti critici di Giorgio Bàrberi Squarotti, Gianni D’Elia, Elio Gioanola, Giovanna Ioli, Barbara Lanati, Giorgio Luzzi, Giovanni Tesio e Sebastiano Vassalli.“Il seme di un pensiero” ha vinto, ex aequo con Cesare Viviani, un premio internazionale: “Sulle orme di Ada Negri” e due premi nazionali: ”Guido Gozzano” e, insieme con Claudio Damiani e Tiziano Broggiato, "Arenzano Rodocanachi", ed è stata finalista al “Sandro Penna”, dove ha ottenuto la segnalazione.
Nel 2013, all’Università romana di Tor Vergata è stata discussa una tesi sulla sua poesia. Nel 2018 l'editore Interlinea ha pubblicato la sua raccolta poetica "Attraversamenti", presentazione di Gianni D'Elia e Giovanni Tesio. Nel 2019 ha pubblicato "Il Monviso e il suo rovescio" edito da Mursia nella collana Argani con prefazione di Guido Oldani. Inoltre, sempre nel 2019 è uscita la raccolta di saggi "Perlustrazioni" per l'editore "Achille e la tartaruga". Collabora alla rivista online "Università diTor Vergata "In Limine", diretta da Fabio Pierangeli e Roberto Mosena.Ora collabora con la rivista “Mosaico Italiano”, edita dall’ Istituto Italiano di Cultura e dai Dipartimenti di italiano delle Università brasiliane.E’ presente in una quindicina di antologie; sue poesie sono state tradotte in francese, tedesco, rumeno e in portoghese. Presentato dal critico e pittore Albino Galvano, per un decennio Mariano ha svolto attività di poeta visivo . Una sua opera sperimentale "spinterogenale" (catalogo Marcovaldo,2002), ispirata da una ricerca tra metafora e linguaggio dell'automobile, è stata esposta in diverse città italiane.Dopo essersi laureato in Storia del teatro, ha per vent'anni collaborato alle pagine letterarie e dello spettacolo del quotidiano "La Gazzetta del Popolo" di Torino e successivamente di "Stampa Sera" ed ha scritto diverse opere teatrali, tra le quali il dramma "Il caso Molineri", pubblicato dalla rivista "Astolfo" del Centro Interuniversitario di Teoria e Storia dei Generi Letterari, Edizioni dell'Orso, 1995.

Ascolto dell'erba

Il merendare largo, prodigo di fabule,
la conta che affligge penitenza
(sempre la medesima), il prender posto
nell’arancia stremata d’un circo,
guastatori più che angeli ebbri.
L’unghiare del vento sul tendone
è segnale di rinverdita mascarìa.
Ce ne andiamo, infine, delusi
dal trapezista che si è,
ancora una volta, salvato.
Non resta che il disco delle sere scure,
contro la faccia la suola
d’una tristezza aggressiva,
compièta d’angelo caduto.

(1966)

Insieme a fiorire

Finalmente corrottosi lo scheletro
dell’inverno, al primo vagito
di primavera insieme riscopriamo
il bosco: il verde ancora pavido,
gli alberi convalescenti.
Via via che avanziamo,
si fa più fitto l’intrico;
ne veniamo presi,
ognuno nel suo intimo annuvolato.
Quasi rimpiangiamo la radura
di cemento, la topografia degli asfalti.
Già galoppano temporali, alti,
lungo folgorata cielostrada.

Cominciamo insieme a fiorire.

(1972)

Diurno I

Sorridi, non un gesto, ricomponiti, presto,
le mani arrese ben distese lungo i fianchi,
sta’ ritto, guarda dritto nell’obiettivo
con naturalezza, sorridi, dal colletto
bordato d’unto l’enfiato collo senti
stringere, non badare, resta sull’attenti,
la testa un poco sollevata, la cravatta
afflosciata, simile a freccia allusiva
verso il pene, la giacca tiene per un solo
bottone che sta cedendo, sorridi,
sorridi con pantaloni cascanti, troppo
abbondanti sulla scarpa, i pensieri
tarpa, sorridi, non innervosirti
proprio ora, un attimo ancora,
sorridi, resta così per sempre.

Da Notizie dalla Castiglia, 1973

Notturno I

Sporge il tuo viso dal battente
nel punto in cui lo sfollagente
cala sulla mano con cui cerchi riparo.
      Da un secondo colpo viene percossa
la fronte, l’immagine stessa d’un uomo
che si credeva uomo intoccabile.
Quanto più a fisarmonica il treno
si comprime tanto meglio
dopo gli spari si rilancia;
      ma il messaggio rimane insufficiente
per la comprensione del viaggio.

Da Notizie dalla Castiglia, 1973

Della città assediata

Sono accorso tra le rovine,
come istupidito.
La mia ratio ha poi ripreso
con la tua, con quella
più sanguinante
della città assediata.

Ma riconoscermi
non ho potuto
nel suo volto così diverso,
trasfigurato. E questa
notte il tuo corpo
ha saputo del mio dolore.

(1987)

Meteco d'Europa

Quando sprofondi sui biliardini del
bar, la tua giovinezza corsara
sfregia dopo ogni eccidio
l’ora ultima, o la prima dell’oblio.
Ultima cena da celebrare in
mortalità di carne.
Anche noi abbiamo subìto le
bestemmie nei fianchi,
l’oltraggio ben oltre il previsto.

Ma chi oserà essere
per te quel fioco Cristo, già presago?
E quali saranno i discepoli
ad attorniarti, indossando gli
smessi vestiti d'altri.
Sei inconsapevole,
vai mostrando la stessa faccia
tribale sia per la santità
che per la dannazione.
Eppure serbi in te tanta
innocenza da poter piangere
per una mela negata.

Drogata urgenza a spingerti tra breve
al compimento della notte: l’azzardo
d’una macchina veloce
troppo e di qualche preda  facile in
alloggi di periferia,
già pregustando al ritorno la festosa
suddivisione del bottino
nello stesso bar, sempre disponibile,
come un’amante che si
possa tradire senza perderla.

Ottuso è il vetro
e deformato in cui ti specchi senza
scorgervi alcun significato.
Anche tu, come noi tutti,
stai trapassando (verso dove? fino
a quando?) in un informe
ribollente di vite
perse e riavute, prima che cruento
si avventi il cambiamento.

(1994)

Monvisana

Ad ogni cima superata altra ti si propone.
Ogni monte ascendi per capire,
estendi i sensi, la ragione.
E se t’insidia l’eco d’una campana
sbattezzata, storni lo sguardo
dal girasole presuntuoso, dall’adescante
miosòtide, impugni un cardo
fino a sanguinare. L’esorcismo è certo.

Tuo companatico, nella bisaccia
entrano di concerto le nuvole,
tua maestosa povertà. Devi giungere
oltre l’ansa che ha trattenuto le nevi,
oltre il primo cielo disertato, oltre…
Per te lo vuoi, per i lari della baita,
per sortilegio tuo e dei tuoi cari
a te simili d’animo e di volti.

Sarà bin la vita ‘n mal ardriss,
com a dis col liber gròss?

Ad ogni cima segue il suo rovescio:
al pensiero la deiezione,
alla realtà l’irreale vero.
Affacciandoti sul dirupo della mente
hai scorto della tua vita la fine.
Dopo aver corso, da te stesso impaurito,
con la goffaggine dell’orso, ti fermi
ad una sorgiva, e qua bevi dalle tue mani
a coppa, memoria viva di tuo padre.

Il papavero infiltratosi tra le segali
ne ravvivava l’uniforme: loglio che
imbandierava il dorso sottano di Elva.
“Erbagrama”, biascicava tuo padre cipiglioso.
Ma era anche macula gioiosa.
Lasciarsi prendere dalle segali,
immergervisi dopo estenuante corsa:
era il tuo gioco di ragazzo.

Ël fieul a dev fé esperiensa
amparé la siensa dël vive:
parej a dis la moral dij vej.

Pochi a quei tempi avevano visto il mare:
ed erano i più sfortunati, poiché
costretti ad emigrare. Ogni tanto
tornavano per raccontare, alla maniera
d’un antica moralità. Vi era chi reduce
dall’Argentina raccontava che laggiù
di mare ne aveva sudato uno
in particolare che si chiamava “Pampa”.

Incupito il blu del cielo in un’acqua smossa
ricorda la ruvida carta con cui tua madre
rivestiva con tocco lieve i ripiani della madia,
come fosse la seta frusciante delle sue nozze.
Presso lei arrestavi la tua corsa infantile.
Dal marezzo della segale contemplavi
l’ondoso alitare, la docile flessuosità,
i varchi che il vento apriva e richiudeva.

La disà dij vej, ël fià sagrinà
dij mòrt, pòvre sej anime ‘n pen-a…

Chi, da ragazzo, non ha tentato di catturare
il vento? Il vento mascone, il più forte,
che sconvolge le nubi che il Monviso espira,
provoca il ruggito della valanga, impollina
le erbe e le fa esplodere di colore,
suscita in ogni pietra il desiderio del volo,
gonfia la velatura del cielo per il viaggio
là dove tutto è maternità.

Ma il vento alimenta gli incendi,
scompiglia la mente, la agghiaccia e infoca.
Il vento è la masca stessa.
Velocemente si sposta a commettere
le sue insidie; fa rotolare un sole
di polenta sul quel versante
impossibile del monte da scalare
che ognuno teme e, pur temendo, vuole.

Che a sia n’infern arvërsà,
la montagnassa s-cionfà da la tèra?

Anche tu eri suggestionato
e alle domande degli adulti rispondevi
che da grande avresti fatto il vento,
il più ardito dei mestieri.
Non potevi immaginare la terra
lontana ed ostile che avresti poi sofferto
nella tua maturità. Solo se fossi stato
il vento l’avresti saputo.

Come tuo padre, e tuo nonno prima,
sei diventato un cavijè. A fine estate
quando la prima galaverna smalta le erbe,
prepari il fardello: pane e seiras,
tessuti da barattare con i capelli
delle donne del Veneto, i più fini,
a tuo dire, bionda erbetta del cielo,
ricciolini d’una sposa invano promessa…

La grassia dl’ora granda, ancreusa,
un pensé ant la ment a piora:
col cel, vel da sposa, a l’era vera?

Per propiziarti il viaggio ti affratelli
ad un frassino: lo suggi dal taglio,
bocca o vulva, della sua corteccia.
Parti solitario come un muflone.
Il volteggio dell’aquila che scorgi
aureolare una cima, il tonfo dell’averla,
sua preda diventata, come una profezia
ti ricordano il rapace che ti attende
nella piana, tra gli astuti.

Ad ogni cima superata altra ti si propone.
Sali per capire, estendi i sensi, la ragione.
Scorgi in una placata pozza del torrente
la maschera pietrosa del barbagianni,
forse la masca tentatrice, molestia
dell’ora più insidiosa. Ancora non sai
su quale cima lontana una nevosa
chioma sarà il tuo palio.
Solo se fossi il vento lo sapresti.

E la maravìa at pia ‘d vardè
con maravìa ‘l mond…

Al tramonto effimeri cirri incendia
il gran morente, come vele d’una flotta immota.
E la meraviglia ti riprende di osservare
con meraviglia il mondo: l’austerità delle cime
valicate e le sempre nuove da tentare,
i segni flebili delle città là in fondo,
farfalle come efelidi del Viso,
il grande cielo che scolora assorto…

Ma il precipitare del ghiacciaio
sembra già il crollo prossimo
di un cielo che abbiamo troppo gremito.
Come il torrente da te seguito
si versa nel fiume e poi nel mare
si disperde, così nella moltitudine
tu sei fluito, lungo strade ferite,
aprendoti varchi nel sangue smisurato.

Oggi sai che monte non vi è più
da immaginare, né il suo rovescio.
Non vi è certezza di andare
in qualche direzione. Sei dentro
un itinerario che va rispetto alla ragione
in senso contrario. Ad ogni città
superata, altra ti si propone.
Ma più non cerchi di capire:
i sensi ottundi, la ragione…
    
Traduzione dal piemontese:

Sarà bin…: Sarà la vita un ordine disordinato,/ come dice quel grande libro?
Ël fieul…: Il ragazzo deve fare esperienza,/ imparare la scienza del
vivere:/ così dice la morale dei vecchi.
La disà…: La diceria dei vecchi, il fiato preoccupato/ dei morti,
povere segale anime in pena…
Che a sia…: Che sia davvero un inferno rovesciato/ la montagnaccia sbottata dalla terra?
La grassia…: La grazia dell’ora grande, profonda,/ un pensiero nella mente piange:/Quel cielo, velo da sposa, era vero?
E la maravìa…: E la meraviglia ti prende di guardare/ con meraviglia il mondo.

(2001)

Minerva

A sera rincasa scontenta della sua giornata.

Troppi frenetici scambi le hanno imposto.

Vorrebbe vivere  altrove per sentirsi remota

e pur nuova, come la casa che  la ospitò ragazza,

circondata di miosòtidi, allusiva promessa

d’uno sbocciare augurale. Vorrebbe ritornare

ogni volta vergine per riperdere la verginità ogni volta...

Ancora altre cose vorrebbe, ma è troppo stanca la sera

per credere ancora nell’avvento, per protestare il suo

sradicamento, per fare qualche cosa di diverso

da quel che si fa ogni volta che si vorrebbe

fare qualche cosa di diverso.

E’ convinta di essere vissuta in altre perse ragazze,

ora musive, in epoche diverse, o anche  in un melo,

in una serpe, nel gelo dell’unicorno.

Ho lasciato Minerva in una New York troppo vasta,

nella sua devastazione, sull’onda montante di gente

inconoscibile. La sento, irascibile, parlare col mare,

la notte. Vorrebbe comprendere la città con acuiti sensi,

tutti conoscere, amare del loro amore, parlare con le loro

parole. Si infligge penitenze, remote colpe, andando

con la perduta gente in un’assenza tanto consistente.

L’ho lasciata  a interrogare Tiresia nel buco incolmabile

tra i grattacieli. L’ho lasciata. Eppure ogni volta la ritrovo

in ognuna che credo di vincere, in ognuna che, morendo, vince.

Ora comincia ad essere dovunque.

(2003)

Sconfinamento

                                                              Viaggeremo
                                                              oltre ciò che fiorisce e disfiora
                                                              oltre il giorno e la sera
                                                              la primavera e l’autunno.

                                                              Giuseppe Conte

Saliamo alla montagna più alta
ad incontrare il sole che già declina.

Lo inseguiamo, già obliquo
radente la dorsale montana.
Lo raggiungiamo in cima al faggeto
che s’infiamma e s’arlecchina;
ma nuovamente tracima, lasciandoci
in un’ombra densa, muffosa.
Nel frusciare di foglie rugginose,
castagne cadendo balzano
dalle loro vulve spinose.
Ancora lo inseguiamo tra verdi abeti
e larici mielati, e ci accorgiamo
d’inseguire in lui noi stessi:
quel solare confine che vorremmo
per l’inverno trattenere.

Percorrendo l’intrico salvatico
sprofondamenti temiamo
acquate e ultimi snevamenti:
altrettante asperità da superare.
La luce adesso non penetra
che per qualche minima polla di sole,
densa è l’ombra del recesso muschioso.
I piccoli schianti della boscaglia
lasciano intuire che sta passando,
invisibile, un elfo o una maschera.
Presi nella sua maglia, tra il seccume
macerato dalla neve, rovistiamo
alla ricerca dell’unico fiore,
misteriosamente annunciato.
Esso infine ci appare.
Quando sia sbocciato non sappiamo:
se prima o dopo l’arida stagione;
se sia novello, o non già
superstite fioco, forse stremato.
Lo accarezziamo senza coglierlo,
perché viva ancora un poco.

Saliamo alla montagna più alta
ad incontrare il sole che già declina.

Ci sfugge la linea solare
ogni volta che la raggiungiamo.
Lasciamo i montacala, le svagate
radure, prendendo diritto per la cima.
Nell’intrico scorticante della boscaglia,
soffriamo per l’erba infiacchita
e per la foglie esauste.
Raggiungiamo, ancora una volta,
l’estrema scia solare; ma presto
la perdiamo ancora.
Questa volta definitivamente.
Eppure il sole ancora ci giunge
dal riflesso dell’aereo che sta
traversando il cielo: in esso
continuiamo lo sconfinamento.

(2007)

Kairos

                                                                                            Il tempo presente e il tempo passato son
                                                                                            forse presenti entrambi nel tempo futuro,
                                                                                            e il tempo futuro è contenuto nel tempo
                                                                                            passato. Se tutto il tempo è eternamente
                                                                                            presente tutto il tempo è irredimibile.

                                                                                            da ”Burnt Norton”, T.S. Eliot

                                                                                            Guardare il fiume fatto di tempo e d’acqua
                                                                                            e ricordare che il tempo è un altro fiume.
                                                                                            Sapere che ci perdiamo come il fiume
                                                                                            e che passano i volti come l’acqua.

                                                                                            da ”Arte Poetica”, J. L. Borges

Governare la casa, rifuggendo le insidie
del viaggiare, interrogare almanacchi,
riaprire ostruite gallerie dell’infanzia,
crescere figli: la vita ragionevole.
Oppure cercare di ciò che ruota il punto fermo,
la nota della tromba che perdura oltre la nota,
l’oltre di una ragione insufficiente.

Che altro cercheranno le due gemelle 1
che stanno per lasciare il sistema solare
inoltrandosi nell’ignoto interstellare...

Sei andato, uno e molteplice, lungo strade
affollate di tuoi simili rivoluzionari,
aprendoti varchi nel sangue smisurato,
riuscendo ogni volta illeso.
Hai cercato nelle città innanzitutto l’amore,
capendo che la città può essere dappertutto.
Ma non hai più forza per predicare
né qualcuno ti rincuora. Come tuo padre
hai lavorato in una falegnameria;
ma il legno era solo truciolato di bell’apparenza.
Hai cambiato falegnameria; ma l’inganno era diffuso.
Come un bambino, credi d’avere rinchiuso
il male in una ciotola ricavata da un cranio tribale.
Non ti riesce moltiplicare il pane,
e il pesce è marcito per logiche di mercato.

Fioriranno nel buio siderale i colori
in successione, come nell’Odissea filmica,
o nella creazione della terra che ad ogni
umana nascita è secondo Malick ricreata... 2


Sperimenti il comunismo obbligato
della fame: tra i mendicanti di Marrakech
e lo sfarzo colpevole del Mamounia, 3
al salpare dei profughi battuti dal remo
dei Caronte sul mare sepoltura.
Ti rallegri per le caviglie d’arancia 4
delle spose promesse; per gli aquiloni
crollati dell’infanzia che, riparati,
riprendono il volo e scrivono
geroglifici sull’empirea lavagna.
Hai cercato di assumere in te l’altro
per capirne le ragioni: del palestinese
che cela in sé il cilicio esplosivo;
di chi, perseguitato, a sua volta perseguita.
Sei tornato alla tua Betlemme, incuriosito
e commosso dai nuovi nati.
Ma nelle capanne non ci sono più asini e buoi,
neppure quelli tuoi, spelacchiati.

Per diverse vie, le due gemelle sperimentano
lo spazio-tempo senza fine. Una risposta cercano
per il dubbio più assillante: se l’infinito è stato creato,
il creatore può essere pensato?

Appari un’ombra dai lucenti contorni tra gli ulivi
giganteschi. Serena è la tua orazione nell’orto,
seppure conscia del tradimento.
Consideri la muta delle foglie d’autunno:
l’inganno del festoso colorarsi che annuncia
la morte incolore. Frequenti la mia giornata,
ma non con l’insistenza di chi reclama attenzione,
con la discrezione invece del silenzio,
della neve che scendendo mi colma.
Credo talvolta di avvertirti nell’eco del verso
che si prolunga nel grembo della montagna,
nella volubilità delle nubi che lasciano
intravedere il tuo profilo e lo disperdono.

Ogni gemella è sola, dall’altra divisa,
vinta dall’infantile paura per il buio.
Si cercheranno all’infinito
e nell’infinito si ricongiungeranno.
Ma senza una risposta sicura.


Che tu abbia predicato l’amore e sia stato
per questo crocefisso è accaduto
(accadrà ancora); che tu risorga nuovo
predicatore per rimorire ogni volta,
è ragionevole crederlo. Così vogliamo
che sia. Ma è ancora la tua questa
chiesa tanto ammantata? In essa ancora
riusciamo ad ascoltare la tua parola?
O non è più probabile riudirla,
come allora, dove è più turpe la strada?
Non rispondere è il tuo modo di rispondere.

1. “Le due gemelle” è un’allusione alle due navicelle Voyager inviate nello spazio.
2. Riferimento a Odissea nello spazio di Kubrick e al recente L’albero della vita di Malick.
3. Sontuoso albergo di Marrakech.
4. Una tradizione che ancora resiste nel Maghreb.

(2011)