Alessandro Mantovani

Alessandro Mantovani (Genova, 1991) laureato all'Università di Bologna, su studi di permanenza del classico nella poesia contemporanea, inizia l'attività critica a Genova attraverso l'esperienza di cultura militante Fischi di Carta terminata nel 2017. A Bologna ha collaborato con la redazione cittadina de La Repubblica e il Centro di Poesia Contemporanea dell'Università. Ha scritto per svariate testate online ed è stato direttore editoriale della rivista Midnight Magazine. Lavora nella redazione de La Balena Bianca e collabora col quotidiano Il Foglio. "Poesie dopo la festa" (Arcolaio 2015) è il suo unico libro di poesie.

Come i compagni

             A Riccardo, Margherita, Antonio e a tutta la squadra del Cusb    

                                                                                                       En que piensas?
                                                                                                      En el futuro.
E' già tanto che è notte
e questo caldo fa pensare
alle mille mani strette
con le foglie autunnali,
alle festività cadute all'indietro
alle barbe tagliate molte volte,
l'ultima oggi.

Mi sembra come al liceo,
quando gli addii erano momentanei,
solo se le vacanze con i genitori
allora un po' di rimorso davanti ai saluti;
e scorro come allora
le gambe morbide delle ragazze
le linee senza senso del campo
che sa di plastica calpestata
penso alla mandorla spalmata sulla pelle,
al ricciolo aulente nell'aria accalorata,
non so se per me o per nulla.

Ma allora perché ve ne andate tutti
in questo giorno mutuale
perché non continuare
l'impossibile versare delle parole
e magari anche qualche travaso
sentimentale.
                                 E dirvi che anche io
vi voglio il bene che meritate,
che vi vedo più lunghi dalla rete del campo
anche se siamo vetri in polvere.
Dunque vi canto, compagni miei,
dal momento che è giusto
guardarvi tutti, ma proprio tutti
al fondo degli occhi
e sapere che, anche se di sfuggita,
ci siamo specchiati
nello schema concitato,
nell'azione difensiva,
nella ricezione malriuscita,
e la palla non è caduta, mai,
nemmeno per debolezza.

Dolci

Queste caramelle che mi porti,
un po' modeste nei loro colori,
approssimative di gusto,
mi ricordano l'inadeguatezza
-forse collettiva-
che rantola nello stomaco
ad ogni minimo passo.

Fosse stata una sachertorte
o un profiterol sontuoso
mi sarei sentito più strutturato,
pomposo d'alterigia,
dessert da gran galà.

E invece è poco le grandeur
di questi frutticini di gomma,
più balocchi per gli occhi
che gusti permanenti.

Ma li scarterò adagio alla finestra
goloso di osservarvi
nelle lunghe cene mute, sapendo che
gli uomini si fanno
con paura e debolezza.

Il Giorno della Festa

Tardi a notte i lampioni gettano vampe
ai muri interstiziali megafoni di passi,
l'uomo alla colonna osserva
senza parlare il tintinnio illecito
dei tacchi della sposa,
talmente in fondo ai recessi porticali
da far male agli occhi.
E lui guarda e pensa male,
stretto alla sigaretta
il suo volto dice fretta da animale.
Pensa male anche la perfetta
imbellettata che sfila sontuosa
e il ragazzo chinato, all'angolo, piegato,

alghe deluse, enti residuali
dell'onda di vita che al buio,
nel tempo della festa,
passa fingendo di nascondere
la logaritmica malaria del giorno.

Marina

Tutte le mattine a La Scuderia, un caffè di Bologna

Se la mattina come pescatore
acqua nelle tasche
strascico la rete davanti ad un caffè
snocciolando uno ad uno
gli errori impigliati
lasciate me e le altre ciurme
nel silenzio denso
sulla fantasticheria della nuova partenza;
nelle orecchie code fracassanti
le spigole e i merluzzi
che non abbiamo forza a bastonare;
guardateci come si vede un fantasma
intento a cesellare un poco inutile.

Ma tu, al contrario, se capisci
fatti allora più avanti
e alla luce della piazza
battimi il petto con il riccio di scoglio
e tra tutte queste sedie
ricolme di sale infecondo
distoglimi dagli aghi
racconta solo la polpa.

Meduse

Da terra vedo tristi
scampoli di turisti,
abrasati sotto il bollore
pezzi d’alterigia, nobili illibati.
Gli ombrelloni sbattono i lembi
sulla terra bianca
in un vento che pare
essere quello di dio.

Io qui non ho posto,
come i venditori di bracciali
sudati nei calzari orientali,
come la medusa
chiusa morta nella mano
del lupo di mare.

Ma in fondo a ben guardare
in questa fiera di vite siliconate
noto solo che l’ombra
più lunga del monte
ci tocca tutti,
meduse scomparse
nelle gore del tempo.

Piazza Verdi

I

Sui sassi smargiassi che ostentano scritte
sciupate dal poco criterio dei passanti,
l'aria sfrigolante (acciaio e tempra)
vibra di fragole inzuccherate
nelle bocche dei bambini festanti,
alcune più rosse a terra, sbeccuzzate dai pennuti
che con voce pluritonale si fanno testimoni
nella piazza di questo scolorìo del mondo,
fiottante sotto portici di sangue o pomodori,
tra gli allori dei laureati, troppo stralampati
fin dalle due di pomeriggio, con le bottiglie in mano,
i bicchieri già versati.

II

Sui gradini li scruta paziente e interloquisce
la barba folta di chi non so ma vedo sempre
intimidatorio forse vate
di allocuzione pomeridiana, di visioni da dopopasto,
di un futuro di passaggio.
                                                         Mi guarda monocolare,
mi branca m'afferra arranca e dice

-Ah le piume dei gabbiani
che mi intoppavano la giacca
quando salso tra i flutti
irretavo le code dei pesci
pizzicavo il riccio scoglioso
catramavo l'anziana chiglia-

e dice di sospiri e amori -forse nessuno-
dileggiati sulle calate di mezzo mondo,
dice delle conchiglie senza perle
del rollio trasmutatore
dell'uccello natatore.

Eppure a me dice i minestroni
materni da rifiuto gargantuesco
i fili delle sarte sugli usci intonaco-cadenti
le grida dei fratelli che mai ho avuto,
piedi di sabbia tra il sartiame.

Preghiera estiva sulle memorie di una breve vita

Benedette sere estive
di notti pastose come il miele
di cieli pieni di significato,
rotte impossibili da sondare
che ancora voglio non sapere,
del mare eterno e dei suoi scogli
di letto alle mie movenze
che chiamavo amorevoli.

Benedetto il sentirsi perno,
centro incrostato di salsedine,
l'essere cuore ampio e contenitore
di quel viola di dubbio senso
tra le cabine dei vacanzieri
e poi uccelli volazzanti in aria
e ragazzini nudi, esperti in giochi
che -non ricordo- ho imitato.

Benedette stelle oculate
nei movimenti, le lune timide
dai colori plurivoci, che mi incitavano
a parlarti, tra le spalle del mondo,
i prati mutolenti, i clivi discendenti
di cui non vidi mai il finale.

Benedetti sentieri improvvisati
al fresco delle conifere,
la vibrosa fibra della terra sotto le mani,
e l'asfalto ancora caldo
premuto sulla schiena bianca
che potevo baciarti, previo le confusioni.

Benedette donne tra le mani,
tenute accolte perdute, fin da
non poter più vedere nemmeno le ombre,
che mi avete inciso il cuore
a tacche per insegnargli la misura.

Benedetta libertà di accettare
gargantuosi a bocca aperta
il fiume sfamatore, ingollare
il suo sale rigeneratore,
godere dell'arsura sui corpi
tra i tendini tentati
di avvicinarsi ancora un poco
al tuo naso così perfettibile
ora dappresso.

Benedetto il pieno del bicchiere
bevuto con ingordigia
e il suo fondo, senso di vita
deglutito che ci prende la testa
come il vino rovesciato d'impeto
sulle tovaglie di carta, tra il pesce fritto,
i colori della festa
e i sussurri dopo, trapelati oggi
per non so quale via,
non so quale cuore.

Benedetta mia madre
la sua lungimiranza non intenzionale,
e mio padre troppo tardi,
i fratelli omessi e i voli tracotanti
da autodidatta.

Benedetti gli amici, lance in resta,
cavalieri desublimati
ex-voto della vita, mutuali spalle
immortali, ganci, colonne, leali,
con le nostre illusioni di semprità
cozzanti sui rivolgimenti del tempo.
Benedetti quelli con cui spezzo
ancora pane e altri
decaduti nell'inane vuoto del mito.

Benedetto l'umano fragile
che incontro all'angolo, la parola
sconosciuta d'intreccio destinale al mio,
il passaggio raccolto, l'ospite accolto
e l'accidente di scoprirsi sintonie.

Benedette le debolezze dell'animo
le fierezze dei peccati e
la ricchezza degli errori
(quelli pure non ancora commessi),
l'ostinata volontà del perdente
e il parlare concitato, il confronto sbagliato
il bersaglio mancato e poi detto
di cui ora mi sei custode, badante,
sacerdote.

Benedetta libagione d'apprendimento,
il primato dell'esperienza
le azioni non pervenute ancora
all'elenco degli io voglio
che ci smussano la sterilità.

Benedetti i compagni del liceo,
braghe corte, quadrettate,
le foto sulle tavolate,
le facce implumi e tutte quelle
prime mani rubate alle innocenze.
Poi le compagne desiderate
e belle nelle gonne
coi petti ansimanti, esplorarle
con nuovi metri da capire,
io in affanno, loro fresche anche a giugno.

Benedetta Genova di salita e arenaria,
Madrid di pioggia saltuaria e Porto
sulle nostalgie del fiume
dove sono già rinato
e poi Bologna di torre e di frontiera.

Benedetto il desiderio impossibile
che da così lontano non basta
a remare dietro ad ogni costa
della vita che ho toccato, ora io,
fiore edotto ed impalato nel bagliore
di questo caldo indisciplinato.

Benedetto e santo tutto
nella memoria, dove vite ripetute
sempre gli stessi gesti,
dove sono sempre anch'io,
cambiando leve colori cornici
i volti della gente, scolorati nella sera.
A volte vedo il mare
                                         anche dove non c'era.

Sponda Est


Arrivo, la riva il lago i turisti
i tristi volti dei vecchi sulle panche
e le papere giocose si accontentano
con le briciole 
sotto il picco austero, spina
al fianco del cielo.

Un bacio sotto il ramo,
foglia vinosa, la pace
lussuriosa del secondo
che ticchetta sulla piazza
nei bar, tra le coppe dei gelati,
è cristiana carità concessa
all'oblio dei cimenti quotidiani.

Poi siamo acque coltivate ad alghe
nascoste e spudorate come il senso
dei colori oltre l'orizzonte.
Noi siamo i bagnanti penitenti
per le bracciate non ancora date
e, per timore, ci facciamo domande
da bambini -Dove andrà a finire il sole?
Accompagniamolo a dormire!
E poi, domani...?- No.

A domani non pensare,
resta qui a respirare il vento
che rubiamo alle bandiere,
sotto la luna che incede ondolando
e il buio cieco in attesa
al di là del monte.

Via Genova


Al passaggio mi incrocia opposto il 27
la scritta elettrica pedestre recita ''Via Genova''
e allora come seguendo infinite rette
sono in una strada verde a Sant'Eusebio
o ancor più fuori la città,
colline pratose al fondo della Val Fontanabuona.

-Il fantasma di mio nonno
ancora intento a sostituire
la catena della moto, slittante
nel cambio della marcia, mi guarda
con l'aria colpevole e un po' triste
di chi sa essere mancato 
ad un impegno prefissato.
Forse non lo riconosco, ma chiedo
-Via Genova?-
è indeciso all'incrocio e non ricorda,
non gli importa di tornare e si scherma 
malamente con disimpegno.

-Poi sotto le torri, il clacson dell'autista
mi chiede interrogativi
anche lui di Genova o di mio nonno,
forse è un meccanico di motocicli,
un angelo in taxi qui, per riportarci
tutti, proprio tutti a casa;
eppure non ho risposte da elargire
al semaforo che invita a non passare:
da molto ho scordato ogni direzione.

Via Zamboni 88


Nella camera colori e tele,
il cavalletto, lampada impolverata
e poi il letto, piccolo da fuori sede,
il banco dove risiede la mia penna
e poi vestiti, bottiglie per le rugiade
mattutine e i pensieri da spedire
ai posteri sconosciuti.

Con il compagno facciamo i sordi
ai bisogni umani – la disattenzione
è distanza di vedute, cifra della vita,
quella di chi irride il malato accanto,
porta che stride.

Però fuori dal vetro 
piante e rampicanti
distanti verso il cielo, 
il velo delle tende
dei vicini, la ragazza 
nel cortile libro aperto
e gambe al sole – poi 
più in là portici
e mura di città
basse ed assonnate
nelle domeniche mattine
sono le lingue di spazio,
connettive del mondo.