Salvatore Jemma

Salvatore Jemma vive a Bologna, dove è nato nel 1951. Nei primi anni ’80 ha collaborato, come socio, alle iniziative della Cooperativa Culturale Dispacci, tra cui la redazione della rivista ‘Numerozero’ e del foglio di poesia ‘Lo Spartivento’. Successivamente, con altri ha redatto la rivista di poesia ‘Al Praga Caffè’ ed è stato tra gli animatori del Centro d’Arte Masaorita (poi Associazione culturale Masaorita), curandone anche le pubblicazioni di libri, autoprodotti e in tiratura limitata, di poesia e prosa.
È stato tra i curatori delle riviste di poesia contemporanea ‘Gli immediati dintorni’ e ‘Frontiera’. Dal 1999 al 2003, assieme a Roberto Roversi, ha curato la pubblicazione de ‘Il giuoco d’assalto’ e di ‘Fischia il vento’, fogli di riflessione politica. Ha tradotto poesie di Eugène Guillevic tratte dal libro Carnac e alcune prose di Christian Bobin tratte dalle Lettres d’or. Ha tradotto, inoltre, il poema di Robert Penn Warren Audubon. A vision. Sue poesie sono presenti nelle antologie: ‘Bologna e suoi poeti’, ‘Postpoesia’, ‘Verde verticale’, ‘Quaderno bolognese’, ‘Fuoricasa’, ‘Voci di poesia’, ‘ákusma. Forme della poesia contemporanea’, ‘Altri salmi’. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Scene, Diciotto poesie, Decisioni – Plenilunio di novembre , Decisioni – Paesaggio italiano e la raccolta di saggi critici Il movimento della poesia. Ha collaborato con varie riviste tra cui: ‘Gli immediati dintorni’, ‘Hortus’, ‘Tracce’, ‘Omero’, ‘Antigones’, ‘Rendiconti’, ‘Novilunio’, ‘Origini’, ‘il rosso e il nero’, Versodove, ‘Yale Italian Poetry’, ‘Le voci della luna’, ‘Steve’, ‘il filorosso’, ‘Bibliomanie’, ‘Italian Poetry Review’. Attualmente collabora con la casa editrice Bohumil.

(Foto di Ennio Daltri)

 

1.

La tortora invernale
raggiunse la sua mente
— un bluverde quell’anno —
la finestra di luce
il seme che fiorisce
che l’angelo spazia
in sua luce totale.
E portan fiori ragazze
affollano bar come
pioggia d’agosto che avvampi
poi settembre sull’ago di terra
le raggiunge, sì che il sole
si scaglia in supramonte;


2.

e no per quel pudore che si stende
più grande che lo spazio quando
brina sopravviene a quel tempo
si mobilita la forte mimosa
alcune, nell’abbaglio del cuore
dicono: qui siam state e qui;
dove piederapido il Savena, a mezzacosta
sul fianco di colline dal pioppo frusciante
— come tra macchine in sosta
sull’asfalto bagnato —
alza una pallida iride
la fa brillare
dai corpi, dal livido salice


3.

da altre montagne sostenendo
come un suono al cuore;
e, aurora di passi secchi, quell’asfalto
taratantara faceva. Poi giunse
quasi a dar corpo al quadro
che spingendo
dall’alto verso il centro e da quello
— con un viola centrale
con un giallo al rosso — sulla tela
nessuno dalle soglie infinite lo potrebbe.
E il mare tonante ora è qui
le stelle risplendono come carne
ora che i rami son sognati.


4.

Il fiume ingrossò l’acqua
e questa come pula scese sul campo
come cenere bagnata, sulla piana.
Gente, oltre quella, cede
vedendo come l’occhio del coro
oh — chiedendo — non è qui che luna
rade i monti ognisera? qui che ora
l’aria fatta albero esplode?
Come chi sciolga il petto — una donna
che la madre interiore più lontana
luce, in fiamma blu ideale —
così si sollevò; poi
dal clivo le doline spezzava


5.

a vento e sole, nuvole strepitose
sì che la sua mente vede crudo
strugge ognuno con profumo di prugna
le nuvole salendo la sua riva
come il cuore la mente, più
abbagliante ancora che persona;
e gente non aspetta la sua luce
o fiamma che scintilla
— luna gigante, d’alta statura
sul campo dal verde straordinario —
che a sinistra a destra, palmo a palmo
da Bologna, su per la collina
torna, così il vento, oltretorrente


6.

per strade e torri
levandosi l’aurora. Di chi è?
— chiede l’amara gente —;
non per questo nel verde s’adombra
per nulla si compone la quiete raggiunta.
Come luce s’alza — dall’asfalto
stagna l’arco del sole nel greve giallo
arde, perché tenue è il coro
nel suo tono superno —
di sola immagine vampa nel cielo
e stagna il fiume Reno; la ragazza
si stende alla sua riva
nel bianco apparente.

 

da Decisioni - Plenilunio di novembre

 

1.

Tutta la gente che fin qui si vede
a sera si ritira da ogni luogo
per strade attorno alla città e dentro
al buio fondo, e sente l’odore
quella città, di usura e bottega;
e là, intorno, si raccoglie come
un attimo, e così la fiamma muore;
o come lingua che chiami, tra pareti
mamma o babbo, e non c’è brillio
della pioggia (la città lasciammo
dopo molto tempo, ancora con fatica
l’ombra dalle nostre, sua, stretta come
posso stringermi al petto di una figlia);
o verso l’alto, in ardore ficcata
la fiamma, che si illumina nei viali
o il parco nord, d’estate, quando piove
quando da Bologna esci, ché in estate
brucia la città, lì sull’asfalto
chi passa vicino, e si confonde quale
stella remota, in qualche buio cielo
e nell’oscuro fondo, ancora suona


2.

la terra che si lascia, così avvampa
la città, e stride come il fuoco
a sera, la taccola più urla
della campagna, la sua calma urlante
s’infiamma e brucia come gomma
e fumo si alza, poi rispande
scioglie verso l’altra strada;
e il guidatore qui contende un posto
poi, camminando, si rivolta indietro
ché tutto sia spento, ogni cosa resti
ferma, lì assieme, perché torni ancora
dopo il suo giro, la macchina la strada;
così, nel buio, lasciammo la città
che affiora tra gli autobus e scende
verso Ferrara, la riga sottile
s’inverde a lato, dico che si fonde
dall’autostrada; e si passa a strada
(e che bisogno, in quelle vie, di affetto
o nella vita, in auto, di qualcuno
come strada che torna, oppure irrompe
il giro di stelle nell’immenso cielo


3.

o bellecase, che brillano nel sole
in lontananza, sull’orlo dei campi;
e lo spazio di ferro infuocato
s’illumina, il motore impalla
avvolto nel bagliore dell’aurora
di uno che passa), ne vediamo i segni
del clamore di morte, che raggiunge
macchine, e persone stanno ferme
a rimirare quello che è successo
se, nel correre dei pioppi
su radure impregnate d’acqua
gente si tiene fitta ai piedi
dell’ipercoop, e dopo sfanga a lato
sul bordo, dove luce alligna e luci
per la Porta, sulla via Ferrara
di macchine al posteggio, e la strada
e fumi o corridoi in fila
di alberi; ché nebbia da colline
quando cala la luce, si divide come
a Funo, da orizzonte, la favilla
si consuma altissima e violenta

da Decisioni - Paesaggio italiano

 

1.

E stelle gioiscono in quel punto
pulsano e scorrono per l’intero universo
di un freddo bagliore; e mezzanotte fiorì
in quella notte osservai gli alberi sfuggire
e vidi, su colline, sciogliersi la neve
verso l’Emilia, nel silenzio e, ancora dopo
col treno in bianca scia, come fantasma
arrivai a Tiburtina il venti marzo
e lì rimasi finché non furono, le ombre
andate, la notte fu più nera e infinita;
fu gelida la notte, ma quando arrivò l’alba
il buio strisciò laggiù, all’orizzonte
dove spuntava il sole, verso i colli
e la pioggia spartiva la sua luce dove
si stende tra le fredde, oscure rive
per l’aperta campagna; in quello sperso
vuoto contrarsi di spazio occidentale
lentamente arretrò dalla stazione verso
il nero fiume, che pareva immobile
e la città sembrava un cielo
di luci e luci e cuori che, in tumulto
scorrevano per quello; e un ferroviere
il passo rivolgendo al binario
disse — c’è un ritardo di tre ore almeno
una motrice guasta, dovranno ripararla —
be’, non dovevo partire, ma comunque — grazie —
risposi; il giorno fu più limpido e freddo
brillò come una grande pila, sotto quella
osservai l’ombra dei gabbiani, il loro volo
scorrere l’asfalto indurito dal gelo
e il bianco volteggiare, poi svanire
a sud-ovest, nel paesaggio, nel chiarore
del fiume, che ora passa su canne sottili;
il paesaggio scivolò sopra il suo buio
e ancora prima che dai colli uscisse, rossa
la pozza di sangue che allaga il tramonto
incontrai R.; camminammo in fretta
da Tiburtina, tra lo spandersi del nero
senza confine, che copre l’orizzonte
e il sibilo di vento e la sua bianca luce
e strade e moto e bus, che vanno come vanno
sempre, per centinaia e centinaia di volte
se pensano alla vita, a quello che rimane
a quello che anche dio dimentica, col tempo
(la città è sparita, ora, fredda e sottile
la sento che si batte, ogni volta più forte
col suo docile cuore sospeso sulla notte


2.

avvampa e si dispera oh, lentamente vibrano
stereo e clacson, che vanno sì veloci
e corrono laggiù, per il centro filando);
la luce dell’alba si stese sull’asfalto
un primo barlume, sottile come un filo
s’allargò tra i cespugli per tutto l’inverno
e quando un vento s’alzò, all’improvviso
caddero le foglie, lente e remote
ne sentimmo il fruscio scivolare tra i rami
lo splendore del verde spegnersi e, nel vento
toccammo il mattino, osservando i colori
di foglia e auto sollevarsi confusi;
voglio dire che l’alba sbavò all’orizzonte
un garbuglio di giallo e rosso, sulla terra
e sotto quella dolce benedizione dell’aria
R. camminava nella forma di un verso
lentamente scrivendolo, scrivendo per anni
la buia tempesta che contende il furore
la durezza del vento, la violenza di fiamme
lì, nella stanza dove ancora brillavano
il letto, il libro, la sedia, il paesaggio
azzurro come l’acciaio, nel bagliore del sole
e il rumore di alberi che strisciava nel cielo;
— bene — disse R., camminando per strada
— sono vissuto, ho scritto e sono morto
però la mia voce non sta chiusa nel buio
mica sono affogato in un fiume nero
duro come l’asfalto che qui calpestiamo —
e, dopo questo, si fermò in silenzio;
così guardammo verso il cielo invernale
sotto le pallide stelle mattutine
splendere i palazzi, la cresta dei pini
e tutte le stelle del mattino brillare
il fiammeggiante fluire del traffico
dove la vita tonfa come un fuoco
a piene mani, spandendo in perpetuo
luce su luce, turbinando col fiume
— ma so che quella è la mano di dio
so che, ancora, è una promessa per me —
disse qualcuno, passandoci accanto;
riprendemmo a camminare per il centro
tra file di macchine parcheggiate ai lati
continuammo, mentre R. guardava
dove riluce quella parte del giorno
del grigio passero, del rumore di alberi
che laggiù inclina; scorrendo tra i colli
osservammo scie di alberi sfuggire

da Decisioni - R. R.