Rosa Gallitelli

Nata a Pisticci (Matera) nel 1969, Rosa Gallitelli vive dai primi anni Novanta tra Italia (Padova) e Costa Rica, dove ha trascorso lunghi periodi a stretto contatto con le popolazioni native del Guanacaste tra la foresta vergine e l'oceano Pacifico, esperienza cui è dedicato questo libro, cooperando poi nel tempo a progetti di tutela del patrimonio naturale.
Dal 2007 ha tradotto con Tomaso Pieragnolo noti poeti ispanoamericani nella rivista  «Sagarana», con particolare attenzione alla ricerca di autori da proporre in anteprima in Italia, confluiti poi negli ebooks “Nell'imminenza del giorno” (La Recherche, 2013) e “Ad ora incerta” (La Recherche, 2014), e curato la prima antologia italiana della nota poetessa costaricana Eunice Odio “Come le rose disordinando l'aria” (Passigli, 2015),  risultata finalista al Premio Morlupo e al Premio Città di Trento “Oltre le mura”, definita da Giuseppe Bellini “un'opera importante di traduzione, resa con encomiabile fedeltà, tale da ricreare il clima dell'originale” (Notiziaro n.65, anno 2015, Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, Università degli Studi di Milano).
Con “Selva creatura leggera” (Passigli, 2015) è stata finalista al Premio “Città di Marineo”, al Morlupo, e vincitrice del Premio Minturnae.
 

Dipinture nel fisso scroscio

 

Ma gli anni nella Selva: infoltimmo,
spopolati fino all’inconsistenza,
all’essere cui nulla è necessario
se non l’incoscienza nutrice,
basilica dei soli diluvi.

Scanalati, inferiori ai Grandi Alberi;
e nessuno in quella lunga frangia.
Vernili ci vestivamo soli,
nel rovescio levati al suo vertebrale,
assordante stame d’unica stagione:
una nera luce di fune
dalla buia noce del cielo,
le sue destinazioni e a lungo più nulla
se non la sua occhiaia indossata.
Resa nessuno così tante volte
dal culmine vegeto al terreo
suo terminale rigagnolo,
che ti parlai di una riva,
di una salvezza a volte o di un avvertito,
sfiorato nero sino al fiore
che aveva come allontanato il sangue,
nominandoci sul filo aperto,
provvisori in piedi corallini,
dal lato di un risorto ammanco
quasi aumentando fianco o prato l’euforia.

Un fallimento stupendo,
un colore avido persino
della corrispondenza che aperta
il tempo non faceva giungere;
e di noi due, di spostamenti
nel fisso scroscio,
non rimaneva che una dipintura,
un fumo come di precari alloggiati
di schiena al terrestiale Arbusto.

È un passato di abitanti oceanini.
La mancanza toglie a volte il mattino,
lungo dal già cinto muso
nel procurarsi una sùbita luce
in bacili fra il giorno e il condono.
Chini alla ciotola del cielo:
Dio, ci vedi?

 

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Nel numero che non esiste

 

Giorni e giorni senza noi stessi;
poi di colpo al cospetto del primate:
fendersi compartendone il diluvio,
avita l’acqua sua tempia totale,
chioma di sesto accorso al carneo buio.

Ci ha giunti un altro mondo, amore,
un pluviale fascio di lunghi mesi
lentamente incline ai rivolti.
Attesi di non rivelarlo,
di confidare in un primo largo,
nel vegetale e scalzo credo
in chi siamo nudi,
disadorni e veneranti all’oscuro;
ma sono io che temo o porto ora ingenuo,
ora avvolto il suo cuore al cielo colmo
di Foreste in cui ha taciuto la pioggia,
la gengiva, la pace di chi la raccoglie,
di chi non pretende più nulla
se non l’amore inspiegabile.

Se sono ancora in quella carne,
in quella scesa del ricordo, del diluvio,
se è trasalire molto chiudendo sempre
i nostri piedi povero averno,
in quel rifulso tutto avvento,
tutto darei purché non tardi ricreasse
l’acqua due sminuiti spogli
e una puntualità lasciata scorrere,
dimenticata in nuvoli e silenti,
in due inquilini boreali
sul rivolo di un numero che non esiste.

Per questo non bussare e entrare estesamente
oggi è impetrarti, amore,
come un’assenza d’usci è
lì confluire
fino al punto di scevri, nominati,
fermi nel documento che apre
senza calze né scarpe celebrati
in scrosci, come eravamo.
Tu amami mentre, perché so chi sono scalza.

 

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Biografia delle piogge abnormi

 

Cerchia o coincidenza di ciechi,
corona di un àmbito agli sgoccioli;
filo un’aria di fondale stempiato
dalla velocità di pesce,
lungo un diurno boreale buio
le esacerbate fronti in lampo cervidi
di erti, pronti vedenti;
e fra quel radicato assenso e il nudo
noi solo due fogli accolti,
attesi giunco dal diluvio,
sentimentalmente scalzi chiamati,
cordone o coro di spuntati verso
l’acqua che sta per rompersi,
rendersi uscio stupendo ai giubilanti,
giunti bambini a dominarsi
muta miriade;
fra doglie da fiorame a vento,
fra giunchiglie in cui crescita udivi
lavabo albo in fondo un sonaglio
ovunque allargato e propenso,
alloggiare l’elenco del fragore
già sfrondato dalle piogge, avvicinarsi.

L’arrivo un virgulto d’amapola*,
soglia abnorme da cui ecco il rovescio,
soglia cui ecco gli accorsi nudi:
foglia informe foggia del piovasco
con palmi e lingue, con scevri piedi,
nel pregno mondo esploso urto liquido,
e come in placenta dispersi;
un’istantanea acquea, monda,
di ricomparsi in plaga o lente della nascita.

Finalmente la grande forma.
Ci investiva il diluvio curvo,
l’odore di stagione cruda,
colmo d’orma e in nari cupo.

Solo infine il fiotto adunato
di un acqueo lento lucente fango
scendeva caldo fra i caimani,
coronava le Iguana di fiumi,
le nuche spoglie sgrondate
quando fra i denti lo squarcio,
quello squarcio avevano ancora,
il denso giglio del diluvio;
come bagnate ammettessero
di aver venerato qualcosa,
forse lo sceso e capace
caldo corpo del cielo riverso,
un suo linguaggio confluito,
mutabile e temuto carne,
fabula o cuore di nube,
di esseri salvi ora in folli acquai, in folli specchi,
in sfondi fluiti mondati.

Così noi, solamente roridi,
accordati agli animali liquidi
da quel diluvio forse idolatrato
come in rituali o biografie;
come solamente di passaggio
anche noi nell’ocra di quell’acqua,
nel butto o affresco di un piovasco smunto
per nascere più vividi usciti
da mesi lunghi, dalle sue lingue,
pettinati e chiusi chiari
nel grande muscolo del cielo
mitilo, schiuso vivo:
cibo in cui scalzo palpiti
illuso dal grande baccello,
dal panico bello nel prelibare
con spavento, con lingua tanta,
l’acqua scorsa e folle e raccolta,
e per cui ora appena sorridi
slattato da quanto in segreto
sei stato foglia, e divelto quasi;
hai inviso o ringraziato l’acqua, la più scesa,
sazio digiuno pazzo nel suo pudore
rotto, di noce alta,
scisso in diluvi al volto.

Solo con l’anno. Solo col limo.

Quanto mistero largo ingenuamente
continente puro.


* Fiore d’ibisco.

 

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Selva creatura leggera

 

Giorni di Giungla, giunco irripetibile,
sfiancati al filo di guado.
E in corridoi di fauna uditi solo,
defluiti lungamente aumentati,
smemoravamo, due spersi
in un’incantagione di ammaliati,
in tutto quel divergere che abbevera
scalzi immutabili sfiorati,
digiuni in dilatata impronta,
stagni purché fosse scomparso
un sangue in noi solo avvertendo
non foci, ma a quell’orma fiumi.

Un passo appena aperto prosciugato,
rado e incredulo in luci e cuna,
cretaceo e vuoto, credo abnorme o
sfondo delle nostre vie minuscole.
Cielo, appagamento, paradiso,
fra la tua pianta d’essere nascosto
e il fogliame animale degli stormi
che hai paura di non contenere:
se gioisci e in uno sguardo
smagano, la Selva è un angelo,
già esautorato dall’interpellanza,
da te svelato e prolungato in suoni prossimi.

Tutti quei branchi che passarono
come un albero folle
con tutta la carne dell’ombra
attraverso la nostra forma,
la carnagione improvvisa
di inavvertiti oscurati:
furono diramata dolcezza,
un dannato arbusto d’altro mondo,
cui a un ramo dalla nostalgia
si usa sorridere
prima della durezza,
se mai si potrà più scompigliati,
smemorati in quel segreto
spazio un celato corso.

Non so con quale voce dire ancora
la Selva creatura leggera,
un barlume, un coraggio sventato via,
un avviso rimasto uccello;
dire di quei nubili venti,
se mai resti un’orma nostra intangibile;
non so quale sepalo avesse,
quale fiore sia volato da noi.

Ma se era la verità al vento,
se te la tolgono rimani
in piedi obnubilato sempre
da un senso di nube e da un lavoro
di luce inutile fra liberati
fogli e stormi caduti,
muto nel dilemma vestito,
con l’animo di nudo che nomina
per sempre aperte le carnagioni
e salterebbe scalzo nella fiamma
di quella Selva nel ricordo,
ora e mai più avvenendo in scarpe,
in eleganze tristi, prive di fiumi.

Brucerebbe nel sempreverde le magre ombre;
e fra due lente linfe dell’alba
nasconderebbe mani e udrebbe i Felini,
ammutolito completamente
da tutto ciò che ode e non vede,
che canta l’animale intoccabile
con una eternità bambina
che non sciupa tempo, varca in un salto,
oltrepassando in croce e in luce scucendo
la nostra rotta commozione giovane,
senza sapere che in quella felce,
in quell’asola di foglie in coscienza,
lasceremo così, su due piedi,
per sempre una cometa d’occhi,
una realtà incendiata e defunta,
la rassegna crudele che altri
attribuiranno al sogno freddo;
non al brano cavato al rimasto
dal centro fresco del seme del giorno,
dall’occhio del coraggio, dal linguaggio chiuso,
dalla passione della macchia di luce
nello schizzo di bestie che si lanciavano
senza colpa, senza sapere
quanta innocenza stava finendo:
scelta fronda ferita meraviglia,
adolescenza capogiro,
che gli uomini ora incenerivano.

Non saprai di quella linea annientata,
di quel vento in preghiere verdi,
del picchetto dell’uomo contro
la scorta d’albe che serbavo;
né del grembiale di smeraldo morto,
della colpa, della tanta paura,
di una Selva calva che non può difendersi,
del canovaccio della speranza
che sbandierai come la non perenne,
ragazza breve; se vidi
venir meno, sempre meno, il disegno
in cui Dio ci aveva fatto piangere,
sorridendo fatti di terra,
mescolati a robusta lacrima,
scompaginati adulti egregiamente,
esatti e inspirati da un guizzo
di Venado* improvviso o Jaguarundi**
che tintinna un attimo e in alto,
quasi sapesse di stagliarsi,
di avere una manciata sonante
di foglie e zampe in paradiso,
un fango in fianco da gettarci
quale soglia rugiadosa della purezza,
una corona da lanciarci nella luce:
giorni di Giungla, giunco irripetibile.
Uomo e bestia di luce e limo.
E la gioia, altitudine crudele.


* Mammifero cervide
** Piccolo puma nero

 

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Cavigliera di fiumi verdi

 

Ascolta, amore, in questo erto tutto,
il taciuto: lacrima di fontana appena,
fermo pende un tempo a allentarci,
rimembrarci in quella strada che assenta,
affonda a lungo e soli porta
al libero colmo aumentato,
a gole di Selve dementi e rauche,
lucide nel condursi a squagliarsi,
a involarsi e dimenticarsi aperte
fino alle carni o ai sorsi di ruscello rari;
di nastri chiari o poco chiari
per poco affievoliti o alzati
a rivelarsi levità, insostenibile,
come di serpe che va a alleggerirsi
sotto una croce vuota a picco, oceanina,
sfattasi legno in coste dove svelte
rifugiavano le Ara odori verdi,
arcobaleni o salmarini in dilegui acquei.

Di colpo fra le conche rudi al nitore aperte,
solo a animali aperte o a sciolte nubi fragili,
dopo i nubifragi le Iguana
erano così rifulgere,
così comete in loro nuche diurne,
saline sino a un cieco astro che le muta in salma,
in spoglia lì nella solvente luce;

che di passaggio forse e solamente
anche noi eravamo sciupo in quel chiarore,
e al di là tenuti con un piede che in dono
si buscava cavigliere di fiumi verdi,
paurosamente obbligatori,
paurosamente momentanei e pieni,
terreni in un vento che gira pagina
e ti rifila turni di luce e nubi,
tuoi orli svelti connaturati ai loro
che crepitano, turbano, ti mutano,
l’ocra d’aria in corona scarna e povera, e
sei come d’alghe o d’albe fogge transitorie
che trattieni, ma ti sgusciano via.

Volli una cupezza negare subito,
sfondo, vastità di Dio,
negare subito ci raggelasse
il lessico dei soffi larghi,
un assaggio di aure strane rimasto
quasi aperto con forza da Ara grandi,
quasi in palati azzurri per il timore;
e in frastorno quasi un assestamento
in cui non sai se fiumi stanno
giungendo o stormi o tronchi a traslocarti.

Tutto volli non avvertire mai,
né che avventatamente amavo
solo esseri di vento e fango,
perché domani non osassero
mancanza e ombrosità del fiume,
tarde ragioni della mente o firme
sul retro di una carta,
riaccendere un sangue sperduto,
farmi pensare lì eravamo scevri,
due crete fra le Ara dal baleno,
fra salme d’Iguana in idoli-sali
chi finse in quell’ansa di non fissarsi,
si ingegnò per non essere commosso
dai fiumi che stava fuggendo;
ed è finito col portarseli nel nudo,
nel nome per il resto della strada,
come radice o molo lùmine in memoria
al riaprirgli folli coste, folli felci,
raffiche d’Ara contro dove focato,
libero d’inselvarsi è dentro.

Ricordi certo il panico in tanta bellezza,
in tanta adolescenza della terra;
ogni istante si mostrava perdibile
come un grido nella fragilità della gioia,
come l’urlo di un neonato sorgere inerme
con l’ancia ingrandita e il fiore che esagera:
un tempo nudo e indifeso,
elargito ad usci già schiusi.

Ha taciuto così, estinguendo i culmini,
una giada di aliti di fiume non più slanciati,
man mano una manciata d’Ara nell’allontanarsi
con l’ombra che poteva semi istoriarci.

Così il barbaglio che asserviva le gengive aperte,
la luce che nutriva punte delle lingue
uscenti da chi guarda l’alto
e a fior di labbra ha scompigliume i salmarini,
le foglie fuggite,
sono un fascio adorato e archiviato,
una livrea o una chioma non più disinvolta.
Una taciuta ventata o vita.
Un domani sparito.

 

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Maternità di lenta testuggine

 

Dal fonema di capelli o clima della Selva,
dal rumore di crescita d’albero
e dalla metamorfosi d’uccelli
in alberi volatili finché
l’aldilà si portano,
crebbi un nomignolo di lancia,
duna a mente di noi due una cattedrale duttile,
d’umile rena mai anelata che spinge;
e affiora, ti innamora come un figlio
la testuggine che sbuca e ti sperde.

Un fondamento solo marino,
senza vocabolo, solo nidiandolo,
cui l’uovo volge e osa l’aperto
e come un tintinnio
di loriche senza mobilio.
Lì appeso, stupendo buio,
gli amanti icona
hanno il nudo.

Continua tu lontano se hai coraggio,
io confidavo in questo limo largo,
nel pesce che torna peltro
in specchi o fortunale
abbandonato dal talento al fiume,
sotto una lacrima di pioggia stagna
allargando un tondo senza cattura,
un gerundio del vigere o il plettro,
un iris avido in celate code libere.

Vi sono indumenti marini infranti,
nostri, che lì conobbero e conservano l’alba,
bucati a forza di attendere
nel blu violento,
scomparsi nell’apparizione di testuggini
e dalla donna che così in quell’istante,
nell’estasi di stella dissipata,
diviene fatta di folto ossigeno
e di un fermaglio solo che la fissa
come un lilium nell’abbandono.

Se ti tolgono quel fermaglio
era l’osso in fondo all’ordine chiomato,
e un lucente ultimo d’albo di dosso
scende e disfa lontano volata
l’amaca lontanissima carta
che parificò la pagina enorme,
foglia o volta, narici potenti
in sepolcrale onda ingrandite;

e parentela sai oceanico l’albero
col tuo nominativo a sbiadire;
rivolto viscerale usbergo
un appellativo che avuto
muore vivendo o riapre esedra
in ciò che vedesti:
lune talmente fresche,
scrosci talmente freschi scrosci
di lune rotte con quel nome,
talmente vaste che la uscente testuggine
pronta istantanea lì si chiamò Baula*
e scomparve.

Non prima di aver visto io il coraggio,
lo straniero entrare nel suo pudore,
nel suo parto che teneva lontano
fra la treccia di esiliata e madre arenaria;

non prima del tamburo che attutiva,
ma che udivo non guardandola
venire dal Mare
al notturno dove liane sapevo
la tenda della partoriente,
la sua gioia di folle latitudine,
del pube fra le fievoli maree
e la buca di luna fresca,
quasi barco della sua capienza placata;

non prima che insabbiasse uova
come ore, che sognasse di non rivelarle che al mare,
che non sopraggiungesse nessuno
al suo sprofondo di puntualità coperta;

se quel suo guscio o scorza di bambina
più estesa del mondo,
nata appena lentiggine d’Oceano,
dal cardine di geografie diluite
scomparve per colpa dell’uomo,
un poco in ogni foto come un poco
ciò che magico se squadrato muore,
toccato da luce è involarsi;

per amarla senza mai vederla,
per riempirla
di un mio sfitto spazio,
di un distacco o un non incontro in clessidre
che allagasse il suo fulcro d’Eva
quando un odore di genitrice
aveva ancora e un animo d’acque bambine;
presi e incartai ciò che avanzava,
l’oscillare nostro in quella bussola grande
e mai sfiorando fra animale e uomo
un divario, e ne feci un secolo,
un timpano, un temuto silente
tamburo o fiore che si lancia in una tomba,
in un sepolcro di costa
fra le mammelle di animale-madre e mare.

Ciò che affondava e che ci aveva incantati,
ciò che avanzava, ciò che non potei incartare,
ciò che intravedo ora è un suo occhio pazzamente
serpere ancora,
ancora pazzamente marino,
pazzamente astro smarrito;
e accecata fra le sue punte,
incentrata bagnata in memoria,
attempata in un fogliame d’antro suo inumato
ho un sudore che non smente mia la fronte
di prona che non smise mai di custodirlo.

E un fermaglio avvolsi che
non fu solo un fermaglio,
ma l’ossigeno tutto, ma la carne,
la più scarnificata luce finanche
carapace o schermatura del mondo.

Non altro che in se stesso o vento
sarà il lilium bluastro al cranio di donna.

Lasciate che lo stipi svelto prima
indebolisca le sue prue non tenui,
se non altro che lo trattenga piccolo,
secolare al volgere sempre
le maternità di lenta testuggine.


* Tartaruga gigante dell’Oceano.

 

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

L'osso del viaggio

 

L’addio mi occultava. Confusi.
Sul foglio la fuggente pioggia:
un attimo sfocata sempre verso
navigazione in silenti,
astratti per la briciola o la foglia
di cibo migratrice, sospirata,
spaesata in incalliti ieri
serbati ormai ai piedi della Selva.

Se eseguo l’animale separato
da fogliame, da fulgente minoranza,
da tutte le afferrate lingue o strade terree
di stella in un disegno strappato vivo;
se avviarsi fu non aver luogo,
non colmo almeno o a mutamento aperto,
palato o palmo in piogge noci crude,
odore di ossequienti a tuono.

Debole o forte tutto questo
mi ha ribadita bosco nei tuoi abbracci,
mancato arbusto se ci allontanarono
da tutti i Grandi Alberi Angeli
per renderci perpetuamente svolto,
vuoto rigo all’istante,
l’immensa fronda morta e quel digiuno
che al di sotto di quegli Alberi
non valse, non fu ritardare:
smunti i diluvi, la fiera fragile,
un’ora senza più ancia acerba;
né più il battito precoce accordato
nell’avere paura prima di tutto,
di acque e linfe, di fulmini volati,
se era questo sostenere il cielo,
in scoperchiato sito assumere di piogge
la lettera estranea e selvaggia,
polverizzarne il simbolo fondato
fra creature in costa di selva incurvata
che fra rugiada e stelo poi sperdute
sovente rinverdivano, e in luce.

Uomo d’albe, bestie in diluvi,
onde in frutici defunti;
madri piccole con pesci fra foglie,
occhi fiumi del padre bambino;
fievole stella somigliante e a parte,
il nato, la clessidra larga del rivo:
fra aurei e bui gusci dietro il sole
questo nascere uccelli, questo essere vivi,
questo rene al centro dell’astrale; e
paradisiaca alga o astronomia
l’albume Oceano che li attraversava.

Celarono tutti assegnati,
come solo passati all’istante,
all’oscurità di estirpati
che ovunque vadano si sanno
spenti, mai più alloggiati,
né in climi vagellati o in liquide stagioni o lance.

L’acqua ritirava dalle lingue;
vidi allora l’osso del viaggio,
le mie scarpe appartate da anni
come nòcciolo iniziale del discorso,
discinto, con essi tenuto,
taciturno ora in cuore a canoe.

Era stata colpa di tutto,
scheggia in sogno o acqua, vulva di tutto,
quella luce d’ostrica aperta,
l’orezza bionda delle piogge grandi,
la parte amena del rovescio appena còlto,
chiodo fisso in scalzi, onore, palma:
un foglio salvo al cardine di Dio
volato nel buco dello spazio
ritondo e estorto.

Finché mi rigirai in un letto
con l’orma a mente lasciata
dove con loro era nata,
con te, per non essere che se stessa;
e dove il ricordo spacca e celebra
in eque nozze nube ancora
la stella del diluvio potente,
nucleo in indizi o passi, nostri innegabili.

Divampava prima ancora che in memoria
mi toccasse il logo torrido di quell’impronta,
fingevo un lenzuolo di piogge,
un sudario di Foreste storia della nostra vita;
fulminea per calzarla mi alzavo,
esatta passeggera scalza rivivevo tutto:
volevo solo essere la ragazza
che in nuda mano mentre muta in fango il fiume
tiene cereale il pesce fuggevole,
e te lo porta amore nel sentirsi piogge
che le dividono il sorriso
e che dal nulla pare cadano a fenderle
un seno di animale che già visse
di abbagli imprecisi prima che gioia
la pioggia incendiasse i viventi,
rendesse tanto più vicini al suolo,
a rogo o linfe, a anfratto d’universo.

Sparsamente e per questo,
con un nome ancora di creta,
di donna esistita in quel cerchio
ed ora in penombra esperta a crescerlo;
ai piedi del letto e del foglio,
a sangue freddo come in album, come fra loro,
indios verdi ancora bagnati;
sparsamente scordo accostumata
a dirmi un po’ di quella fulgurale,
calda pioggia che ci costrinse
al semicerchio d’alberi, ai diluvi fulvi,
a onde in albo, noi infiammati in sfondo,
come sposi che con loro pregano e non pregano,
che al di là si dicono dentro.

Dove sono le cose di noi?
Ho solo questi occhi d’uccello:
due semi detenuti e cupi in ieri,
in oceanine piogge e foglie che sparirono;
quattro gusci cui vado a dispiacermi
dei desistiti puri uragani angelici,
tue braccia in cui giungo a rincrescermi,
dal buio al buio di una premura isolata,
non tornino nel ritremare
le Selve morte, le depennate,
lontane orme in acquazzoni
cui consegnammo tutta una follia,
il racconto o la ragione invaghita,
l’acino d’uno aperto e cieco
innamorato del finire,
similare a semenza,
nell’uguaglianza d’esseri altri in pioggia
che tanto cala fiume e allega ai vivi
gole della sua floridezza,
la colpa di ogni inizio eccelso,
crudele e destro come Dio, come l’amore,
o il grande occhio animale che ti abbraccia e argina.

La macchia d’addio che ti lascia,
forse la tenerezza in panni identici,
ancora aperti a Selva che non torna
cui desti la tua parola,
tutto il baluardo di scomparso
purché il tuo vuoto, di chi quasi non popola,
fosse un corso per la sua fortezza in nascenze;
e niente di tuo ciò che nasce,
solo visione un attimo inviolabile,
fissazione, molo non a fuoco.
Ma così bello.

Che in fulvidi tutti ora mancanti
quasi è il diluvio un dio portato via.

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Spiga d'infanti, smeraldo

 

Sorse luogo potente, colpiva;
i giacigli arbusti fulminei.
Dal piovasco abbattuto, da un suo grano,
entravi in una lunga
lontananza fonda dove nessuno
poteva più risponderti o scolmare,
nel denso rombo giallo conseguirti
la voce mestica oscurata sempre.

Soli. Fu questa la piena:
la cuna confusa fra limidi*,
l’orecchio di terebra**, un pettine,
nell’ordine occultati dalla rena;
l’entrato e uscito Oceano dagli alberi
fondali nella Selva con quanto gergo
appanna e paventa e spuma,
ti cresce congiuntamente contro,
venuto a disgregare e ad accostarti
mitili, legni appaiati,
spaiati in bave sulla terra
perché tu assista poi al vigere
di gusci e in questo nascere solo,
lì estinto e occupato da luce,
fra essi tu sia il consanguineo
rabbrividito ora mite,
in quelle rive uscite appena còlte
piombato in fondo al buio, infatuato.

Sorse in quel fuoco stretto acerbo e genito,
nel gemito diamante concepito
per pura gioia, per vite
vivide per solo un poco, enormità;
nel tenue caldo sparso di ramo,
o madre di ogni natura
sfigurata da frutti che la assorbono
e la abbandonano al pallido
cavo marino del coraggio;
lì lasciammo un palmo nostro, un piede nostro,
fino a due lustri conturbati
dal cordone di limo e mare.
Era forse quel ramo sudicio
la terrificante purezza
dell’uomo che va nella fronda
di nubi in lampi, attimi azimi;
spoglio tornato al fango,
al laccio d’acque nella creazione.

Ma disgiunti gli ombelichi distanti
da quel brano perso e ormai aperto,
con uno scudo mezzo ancora in quella luce
sfocata, senza più linguaggi,
al domicilio urbano temuto radica
di abituate mani alla chiave,
temetti nel mutamento,
costretta sfollata credendo,
per un attimo in questa storia cieca,
che il destino persino ci lasciasse
col vuoto o mappa di un tuo cenno in Selve,
emblema e mente,
perpetrato da lanciatore incerto
nel nubilo di un’ultima pietra slanciata
sapendo la decidua curvezza,
mai più ripetibile quel profilo
che un giorno diverrà l’avverso,
volto di una medaglia o vita
rivolto volando via.

Ma io non ho dimenticato,
cammino per restituirmi,
cammino fra tanti che camminano
per essere ciò che dovevo.
Per quante solitudini conduca
lì dove vacillammo inermi,
sfinisca o mi confonda in mattutina
luce di cose
che più non succedono,
so dove ubica e strema ancora la leggera
resistenza di quelli che non rientrano.
Sono nel memoriale,
orinano nel suo smeraldo,
sciupati e lucidi nell’innocenza
di chi si crede ricomparso,
in quel primario cerchio in viveri ricordi
si nutre e incarna e aumenta un occhio perché non prevalga
contro lui una carnagione estranea,
ma lo spiraglio di vivente in prime Selve.
È come se ferisse di nuovo
la venagione del mondo.

Riapre la sua biografia:
sfoglia tutti i nati, tutte le voci.
Si volta e ha il fogliame dei volti,
spuntata la spiga di infanti
da tutta la spalla dell’indio,
da tutto quell’evo sfrondato e
conseguito fin dove ha iridi.
Lo segue. Non rientra. Lasciatelo.
Già chiama e arde questo pudore
fra le cui foglie convoca e difendo,
nascondo il loro pane aperto.
Ancora; questo fango splendido.


* Molluschi con conchiglia a ventaglio
** Conchiglia a spirale dei mari caldi

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Cerchia, famiglia verde

 

Quei fuggevoli animali scorsi,
tardi della terra nubila,
tardi annotati nube;
e c’erano alcuni terrestiali
voli rimarginati in fretta,
dolente mappa temuti,
trasparenza un domani;
definitorio un gesto che da lampo
o pesce nasce,
residuo spazio detrito,
tra iride e mani a istoriarsi mare.

Un abito scordato a Novembre
in un rombo d’albera;
quanto perdura nel ricordo
secca in una losanga d’ombra,
chiaroscuro di avvistamenti in fumo,
lontano un nostro sangue visionario.
Ma alla resa il fiume non viene,
non la stagione illusa al buio,
fra il foglio e la fede fresca
di vacillanti due ora al condolersi
per ogni cosa che nasce lì scorsa,
per ogni cosa vista e sparita
in queste storture del tempo,
in queste mani ormai rifugiate
sempre meno nel tema terrestre.

È che dopo anni in fondo agli alberi,
in estuari antro dove il mare
veniva a celebrarli spuma,
fra donne verdi fra vento
e uomini in disegni lenti
nella lenza del sonno,
fra bambine fluite in veglie con puma e pesci,
scalze con dipinti lunghi occhi d’uccelle,
ho lasciato la mia ultima femminea scarpa
senz’altra famiglia o pagina;
come una allontanata che li bacia,
ubiqua al disunirsi madida,
rimane in piedi sulla linea di una lacrima
come fosse il suo fondamento,
riconsegnarsi sempre in seno corrente
a quello stesso spartiacque,
da allora in avvenire di stucco
nell’urna delle mancanti voci.

Se nulla ho fondato in quel punto,
se solo appartenemmo a luce,
se quei volti appartennero solo
ad una luce inviolabile;
non so se in questa arborescenza lascio,
se sia presto o tardi o se ho ripreso
a scriverti che chiude una voliera,
un corindone spento per sempre.

Ma in questo lineamento tardo
lascia io possa almeno,
nella circolazione del ricordo
lascia io possa almeno a mente
cerchiarci, amore, in fulgido tempo,
dalla spina nello smeraldo in poi
cui appendesti la prima maglia
fra i nomi della luminosa bestia;
li possa salva, anche in noi, data potente,
possa Selve impugnando pianger le verdissime,
loro grandezze aperte
di seme da soglie libero.

Questa la memoria: un foro nel vento,
perché non si debba più fingere
di odiare luce e leggerezza,
di scordare aldilà sfiniti
quei fuggevoli animali e volti, e occhi scorsi.
Ci attendono. Guarda. Circondano.
È tardi, andiamo, la terra obnubila.

Argilla, cuore sasso gettato,
là dove ci separarono
dall’orma dispersa esperta,
cerchia, famiglia verde.

da Selva creatura leggera, Passigli 2015

Istmo prima cuna

 

L’occhio infisso al fuoco di foto
semente è in luce d’ore, oblique lance,
ha le navigazioni che si chiedono sperdute,
aureole a un Dio volate per gli uccelli.

Salici i nomi scesi sciolti pesci
slegano i nostri corpi e sfuochi;
lentamente nudi questi corrono,
finché inselvata non trascrivo
da lì che il ricordarci sempre
al filo di quel blando Oceano.
Vederlo albero in cenere e in te sìlere,
dall’infinito togliere i polsi,
da bocca il frutto caduco iniziato
degli avventati fra assorbito stormo.

Da lì solo un abito e abitai
per dipartire le dementi foci
di quei due nostri piedi in gorghi nudi,
pensando l’istmo prima cuna,
attaccando un chiodo e tremando,
stanziando e sragionando un capo altrove,
un logo in dubitate destinazioni;
sola come la folla,
così, solo non più accendendo
le ubicazioni che migrano.

Li ho sparpagliati ormai questi giorni,
le lunghe borse d’esuli fogli,
la gioia e indefesso l’arco di Giungla
che al creato tese un lungo nido,
lungo un ritardo,
di lunghe piogge.

Ci sradicarono ma torna:
goccia, ala carnale viva,
uscita costa cui bastò il corso
di un fato in fumo sempre rivolto.

Ma non crediate, gli animali sanno;
sanno gli amanti infiammati,
come viventi morire al buio
di ciò che credevano un folle bacio,
di un folle verde, folle e acerbo,
certi di vite e che solo il mare
le sposti dipartite rivo,
depositi azzurrità, incoscienze.
E finalmente tutto in questo dimesso
più non atteso, più non attendo.

da Selva creatura leggera, Passigli 2015