Maria Luisa Vezzali

Maria Luisa Vezzali (Bologna 1964), docente di Materie letterarie nella scuola superiore, è traduttrice di Adrienne Rich (Cartografie del silenzio, Crocetti 2000, e La guida nel labirinto, Crocetti 2011, premio per la traduzione dell’Università di Bologna) e Lorand Gaspar (Conoscenza della luce, Donzelli 2006). Ha curato un’edizione di Saint-John Perse, Anabasi (Raffaelli 2011). In poesia ha pubblicato L’altra eternità (Edizioni del Laboratorio 1987), Eleusi marina (in “Terzo quaderno italiano” a cura di Franco Buffoni, Guerini e Associati 1992), dieci nell’uno (Eidos 2004, disegni e sculture di Mirta Carroli), lineamadre (Donzelli 2007, premio Anterem/Montano), Forme implicite (Allemandi 2011, con gioielli e disegni di Mirta Carroli). Suoi testi sono tradotti in inglese, spagnolo, francese, tedesco e svedese. E’ comparsa in numerose riviste e antologie. Tra le sue ultime letture pubbliche, ha partecipato a Pordenonelegge nell’ottobre del 2010 e al festival di Letteratura di Mantova nel settembre del 2011. 

(lo sguardo della rete è paziente)


Lo sguardo della rete è paziente,
senza cruccio.
Nessuna incertezza l’attraversa.
Nella sua trama bianca si decifrano
rotte di migrazione,
le aule dei libecci.
A mezzanotte, carico di peso,
è scosso un fuoco stretto di lampare.
Conosce il buio


- e la via nel buio,
e, nella via,
sotto la sparsa radianza delle stelle,
i mostruosi millenni della fede –


Qualcosa forse 
scintilla nel sommerso,
rode il fondo insondabile,
fa cenno.
Ma il mare non si fa mai riva.


«A tali insidie tu sei condannato:
se smetti il canto, ti prende la paura»


Da Eleusi marina (1992)

del mondo


chini la testa per passare la porta e al di là della soglia il mondo respira
di visione, un’onda impaziente che  trasporta gli odori delle case, umidità
ruggine, cenere, benzina, età che turbinano verso il bruno
gli occhi passano in volo le teste chine sui tavoli, la mano sul telefono
la sosta al bar a metà mattino, il freddo che canta, la pelle
che riflette l’assenza di un gesto
grumi di luce che tornano cose di luce in un sorriso mite
sotterraneo


Da dieci nell’uno (2004)

fin dal principio


noi eravamo insieme 
imprescindibili 
eppure in qualche modo
già sole, incomprensibili 


l’una all’altra, fiaccole a precipizio
sul buio delle antiche senza insegne
pulsar di caldo insanguinato
l'una per l'altra


là vedevamo scorrere
codici indecifrati di noi
contrasto sullo schermo della luna
primitivo specchio d'argilla


concavo e convesso
di quella stessa forma
impantanate in un'aurora infetta
di passione, identità e di ferocia


eclissi di grano caldo e falciato
sotto la terra voglio rimanere
con occhi di terra voglio guardarti
berti voglio con i semi d'arancia


tra i denti e tra i corridoi degli orecchi
l'onda notturna che fu la tua voce
durante la notte più lunga
e dolce, e perduta, e paurosa


l'anima voglio berti sulla lingua
lettere illeggibili che tracciano 
le tue dita sull'orlo del cuscino
stare qui e non essere morte


frantumare ogni singolo respiro
nel carso degli anni senza essere mai
fantasmi, essere piuttosto pianeti
in fuga per traiettorie segrete


in questo spazio di fragili stelle
rimani vicina a fuggirmi il freddo
cantami il canto dell'approdo
la dura mappa delle eredità


la norma che dice siamo le pietre
angolari di un vuoto senza trappole
al cui appoggio
il corpo rinsavisce, che ci dice


avremmo morte più definitiva
risolte tutte le nostre distanze
e ricuciti gli strappi delle unghie
non continuasse a trapassarci insieme 


la linea, la lancia che scorre indietro
indefinitamente
a rintracciare il sangue ed i genomi
giù per vie di lotta irriducibile


la linea invece passerà di qui
la vedremo viaggiare non sorprese
la  aspetterò
avvolgersi su questo foglio


sul quale ora la luce acceca 
a intermittenze
vitale, poroso come il tuo ventre
quando non rimarrà niente altro


la linea calerà
dalla parte dei gesti
ripetuti a perfezione senza che mai
si siano imparati


il modo di spazzolarti 
i capelli, il collo gravato dalla tenerezza,
il ritmo con cui giri
il cucchiaino


liquida affonderà la linea
proiettile tra stazioni di età
con il fischio narcotico del sogno
forerà le mie labbra addormentate


sopra gli occhi più cari,
quella pace sarà la linea 
che mi proseguirà oltre me,
che unisce nonostante tutto


madre


Da lineamadre (2007)

faiences


quel disegno che è solo delle vene
o dei fiumi da certe altitudini
del piombo quando si arrende alla forma
delle ombre in cui brivido il ricordo



quel disegno che si annida negli occhi
procedere perché resta un sentiero
così bianco tra il giorno che ricade
e la pazienza compresa del tornio



come una pioggia scivola sul vetro
smaltando un velo d’acqua sul riflesso
né si può dire perché
quali gesti ha incastonato nei geni
un ritmo mai spento nella polvere



tralci visi uccelli irti nei palmeti
lavori miti di una sapienza sorpresa
come il gioco di un polso senza interruzione
o un raggio di spazi imprigionati al polpastrello
rami del tempo nei pori
come se un canto potesse esplodere sulla lingua
lasciando una cicatrice di fresco


Da Forme implicite (2011)

corallo


bello lo spazio quando non è cinto
da mura quando il lontano è una piana


stupita la città un affastellarsi
di sogni ancor più bello quando


si sente il respiro che sale verso
la superficie gremita d’ossigeno


da cantine di pietrisco muscoso
dove la vita è ribelle e straniera


i polpastrelli prensili che pizzicano
incandescenti le corde del sopra


bello tutto questo mondo di scatti
un lavorio industrioso di aggiunte


e si sente la prodezza si sente 
il grande infarto buono


di tenere insieme salto e radice
lo sfarsi e la pulsione 


la fiamma è un vessillo di sangue
benché in piccole notti individuali


piccole sì da non pensarci
da persistere piuttosto dove si


sente il punto di rottura l’amore
il comando di ardere nel diluvio


continuare ciò che sappiamo meglio
fare fuoco e ad occhi chiusi danzare


Da Forme implicite (2011)

lingua sasso


dentro le gabbie o nella testa
o sotto la sabbia grigia dei deserti
le parole possono morire
come gli uomini
una volta strappato
il tessuto che le contiene
una volta strappato via
aperto il burrone che le fa cadere
tra gli atomi che rabbrividiscono al contatto
la materia nauseata si ritrae e frantuma
come una specie di pioggia di pietrisco
solo il modo (a piombo)
con la schiuma dell’acqua nelle orecchie
solo il peso (l’ingombro)
la lingua sasso
che si rotola in bocca
succhiando inarticolati
respingimenti


solo la cosa senza flessione
le perifrasi che brancolano tra
i suoni come lacci


e noi fatica e prega 
e parla nella notte
di là dal taglio del canale freddo


come triangolando con le stelle
e la casa troppo accesa nel ricordo
piena di passi di serra d’attesa
lo snodo d’orizzonte sulle labbra
la teiera fischia il canto tra i tetti
l’odore della pelle della mano
che è come una terra d’approdo
all’indietro


ma tornare indietro
è difiscile
stare qui
difiscile
il mio tempo te lo do
la schiena il corpo te lo do
in cambio di un cartoccio
ma la faccia l’espressione degli occhi
la bocca 


se vuoi sparare spara in cielo
noi non siamo
uccelli


Nota: Questo testo nasce dall’impatto con le interviste dei lavoratori extracomunitari feriti durante i disordini avvenuti nella cittadina calabrese di Rosarno nel gennaio del 2010. L’ultima strofa è una citazione letterale.


da Aa.Vv., Sotto il cielo di Lampedusa. Annegati da respingimento, Edizioni Rayuela (2014)



(dallo studio)


Limite è detto il termine estremo di ciascuna cosa, 
vale a dire quel termine primo al di là del quale 
non si può più trovare nulla della cosa 
e al di qua del quale c’è tutta la cosa.


Stasera è una pausa. Non ci sono rumori nella casa e da fuori il vetro sembra diventato infinito. Passano evidentemente le auto come sempre, ma non arrivano. Passano le sirene del soccorso come sempre, ma mute. Inghiottite da una vibrazione bassa, un binario che freme piano percosso dal ricordo di un passaggio bloccato. Il rumore che fa il prima della vita o il dopo. E’ così quando ci si mette in pausa e non si sente altro che il proprio ascoltare? Si finisce in una zona diversa dalla cosa che si vorrebbe richiamare. Sfasatura obliqua dove è vapore il linguaggio. Quella cosa di paura che è il nostro respiro.


Da Cartoline metafisiche (2014, inedito)

(dal bagno)


Perfetto si dice, in un senso, 
ciò all’infuori del quale non è possibile trovare 
alcuna parte di esso, neppure una sola. 
Per esempio, il tempo perfetto di ciascuna cosa 
è quello al di fuori del quale non si può trovare 
alcun tempo che sia parte di esso.




Sono presente al mattino in cui mi alzo al suono della sveglia, in cui lo specchio riflette un’immagine in costruzione di cui non c’è ancora un lineamento noto e imparare assume un nuovo significato. Come volta per volta plana diversa la vista su un oggetto che seppure diverso deve essere riconosciuto in continuità. Sono presente alla sera in cui si sono ripetute tutte le sviste, rimarcati tutti gli sprechi, rivoltate tutte le fatiche. E ci sono i crepacci di tutti i risentimenti nell’aprire un quotidiano, avviare un canale, accendere un computer. Sono presente con un atto di volontà che inceppa lo slittamento dietro. Per amore, visitare lo scambio di uno sguardo che ha la piega morbida delle vertebre, abitare una pietra mobile che come niente altro fiorisce. Sono presente al presente per amore.


Da Cartoline metafisiche (2014, inedito)

(da San Lazzaro)


Ciò che impedisce a una cosa 
di muoversi o di agire 
secondo l’inclinazione che le è propria 
si dice che ha o tiene questa cosa.




Se avessi avuto sorelle almeno il sangue si sarebbe diluito. Così sta tutto denso in questa vena rigida ostruita sclerosi di un destino, con la voce di lei nella gola e l’odore di lei nei capelli, immagini diffrante sovrapposte che vibrano ronzando nella scatola del video. Odore che spande: in superficie una nota di camomilla, più in fondo miasma d’oleandro. Voce che dice: perché non accogli questa cosa semplice? dna o demone che tu lo chiami, non c’è esorcismo, non puoi contare sul vortice cristallo del futuro, è già tutto qui frantumato ai miei piedi, sono piena luna, bambina assoluta, nube che ti copre gli occhi, non resistere, io non capisco le poesie... Ognuno ha una corsa, la mia l’ho sognata sotto l’acero rosso del patio.


Da Cartoline metafisiche (2014, inedito)

(dall’edicola sul lungomare di una località turistica per famiglie)


L’eccesso di ogni sensibile annienta l’organo sensorio.




Se ti chiedessi dov’è la nostra vista, dov’è? Se ti chiedessi dov’è il nostro orecchio, dove? Se mi chiedessi in quale vicolo tondo quella nostra cultura, su carta sfregiata. Così da lontano non si guarda in faccia la riva dove cadono bambini dalle traiettorie della notte, dove sui dorsi dei semplici, degli storpi, degli asini vengono imposte falci d’esplosivo, dove fasci di ragazze brune in stagni d’orrore, immensi morbi fremono sotto l’ansa immobile dell’aria. Ma se non si guarda, batte l’alito del vento alle nostre porte inutili e vicino molto vicino anche risa si attorcigliano ai margini fragili dei giardini. Allora, apri almeno, guarda. Fissa cieca finché c’è buio.


Da Cartoline metafisiche (2014, inedito)