Veneziana, giornalista pubblicista, collabora alle pagine culturali di "Il Corriere del Veneto". Ha ideato e condotto la trasmissione 'L'arca delle parole', programma radiofonico dedicato alla poesia per Radio 24 IlSole24ORE.
Vive vicino all'acqua, condizione esistenziale necessaria, alternando al Canale dei Greci il fiume Sile. In poesia ha pubblicato la plaquette A pelo d'acqua (Premio Firenze 1997 Fiorino d'oro per poesia inedita), Casa di donne (Marsilio, 2005 - 2006), il libro d'artista Pantone con una incisione di Piero Guccione (Colophonarte, 2012), Shakespeare alla veneziana, (Santi Quaranta 2012) una traduzione/trasposizione di 33 sonetti di Shakespeare in veneziano, La grazia del danno (La Vita Felice, 2014). Traduce dal russo e dall'inglese, sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, sloveno e croato. Sue poesie sono incluse nella antologia di poesia italiana del Novecento in pubblicazione presso l'editrice argentina Gog y Magog.
Ha scritto narrativa per l'infanzia e racconti; suoi interventi critici sono presenti in riviste letterarie, libri d'arte, cataloghi di esposizioni. Ha curato la riedizione di Poesie dialettali di Ernesto Calzavara (Canova, 2006) e curato e tradotto la versione integrale di Memorie di una contadina di L. Tolstoj e T. Kuzminskaja (Casagrande, 2008).
Ho cinto l'aria di pietre
per lapidare la tua ombra
ma la forma della tua lingua
è in salvo nella mia bocca.
Non ho altre parole che queste
nostre.
Hanno scelto malgrado noi.
Hanno detto la gioia
dettato il danno
taciuto la maledizione.
Ma tornerà dolente il domestico splendore
degli orti d'Istria nel crogiolo di luce
dell'Adriatico più mite, questo lagunare.
Tornerà l'odore rinascente di salina
nella traccia avara di sparto e salicornia
e toglierà il respiro
come l'ultima salita contro il vento
alla casa guardata dai cipressi
abitata dagli occhi contro il senso
nella terra dal nome irto della gioia.
Dopo l'ultimo sole nel mio inverno
resta imbrigliato dietro le palpebre
un grumo palpitante
che non è luce
ma come una ferita
dona luce alla carne.
L'abbaglio nella temporanea cecità
illumina il fondo
intatto
come l'innocenza di una bestia
e svela inattesa la grazia del danno.
Il giorno nuovo si è fatto, mio quieto non amore,
se già distingui la grana del grigio
nel buio ancora fresco, ancora non parola,
nella pasta molle di luce
che disegna i margini alle mani
e stende il bordo scuro delle labbra
nell'ipossia pigra del risveglio.
La pianura breve del giorno
si anima di cenni garbati
e figuranti
e paradisi e inferni
perduti finalmente.
E' l'ora del traffico di automi
dal CSM* dietro casa.
Sparsa sciama la truppa
consegnata alle benzodiazepine,
toppe di buio sull'asfalto
nel cono giallo del fanale
marcano punti di fuga senza prospettiva
per una notte torpida, uguale.
Materia inerte che si sfalda
a blocchi dagli arti
dissipandosi intorno alle ombre
come un'aurea opaca.
Sul marciapiede
il male ingombra la vista
degli automobilisti
il tempo di un semaforo.
* Centro di salute mentale
Terra alla terra, dunque, nient'altro.
Muoiono quante volte i morti
fino alla resa della voce
nelle litanie di turbate ninnananne.
Ti ho padre,
nell'acqua salsa che ci unisce,
ti ho come mai oggi perduto
nella terra che affiora.
Quando si sfalda il tempo
ghiaia sullo scoscendimento
più cauto è il passo
più inarrestabile la frana.
Sono rimasta per la sfioritura del ciliegio fino alla fine.
La bora chiara d'aprile incorona una pozza di petali rosa.
Qui non c'è da comprare cosa che serva, niente da possedere o perdere.
Da quanto non raccolgo fiori dai prati, anima dagli occhi, respiro dalle bocche.
Sento che il vento spoglia ancora, offro le mani tese a questo disadorno sfarzo.
Ho raccolto un sasso di granito perfetto per l'anatomia della mia mano.
Lo tengo fermamente nella destra per darle peso, giustificazione.
Racchiuso e nero dentro la nicchia rosa asseconda la presa docilmente.
E' polpa minerale non inerte. Sedime di forza tra le dita.
Così a volte si assolve il senso di una vita: portare un peso che non spetta
per far zavorra o forse compagnia.
Per M.G.
Verso Belluno
la A27 è vuota nel tratto
di massimo aggetto del viadotto.
Nell'avallo d'estate di settembre
un'ombra blu disegna un'ala
densa sulla sponda nuda
dell'inghiottitoio di sassi e luce,
un vettore cupo – è più spessa l'aria a fondo valle-
si inabissa oltre il limite dell'occhio,
protetto dalle reti sopra il guard-rail.
Era questo il segnale,
questo il punto esatto per lo stacco?
Qui dove il peso non è corpo
qui dove il vuoto schiaccia il cielo al suolo,
per ogni metro l'assenso
dentro un respiro solo verso il fondo.