Ida Vallerugo è nata nel 1941 a Meduno (PN), dove è sempre vissuta, con la parentesi del periodo che va dai dieci ai ventitrè anni, quando con la famiglia si trasferì a Poffabro, una frazione di Frisanco, che considera il suo “secondo paese”, la terra d’origine della sua poesia. Qui infatti ha cominciato a scrivere versi. Ha frequentato le scuole elementari a Meduno; in seguito ha studiato come interna presso un collegio di Udine dove ha conseguito il diploma di maestra. Dopo aver vinto il concorso per l’insegnamento alle scuole elementari, ha ottenuto la cattedra prima per due anni a San Daniele del Friuli, in seguito per alcuni mesi a Rive d’Arcano, poi a Poffabro; infine a Meduno, dove è tornata ad abitare, nella casa dei genitori, nel 1970 e dove ha insegnato fino al pensionamento. Il primo lettore delle sue poesie è stato lo scrittore e giornalista Giuseppe Longo (Messina 1910-1995), che negli anni Sessanta (tra il 1960 e il 1967) fu direttore del “Gazzettino” di Venezia. A lui la Vallerugo mandò alcune liriche in italiano. Longo le apprezzò tanto che gliele fece pubblicare ne “L'Osservatore politico letterario”, una rivista mensile che aveva fondato nel 1955. La invitò anche a collaborare alla Terza Pagina del “Gazzettino”, e nel 1968 fece pubblicare la sua prima plaquette di liriche in italiano, La porta dipinta, presso la Pan Editrice di Milano, di cui era il presidente. La seconda raccolta di poesie in italiano, Interrogatorio (1972), è legata al periodo fiorentino. Infatti fu pubblicata nei “Quaderni del Collettivo R.” di Firenze, un gruppo di intellettuali controcorrente che si era costituito nel 1968, a ridosso della neoavanguardia di Palermo e che aveva fondato una collana di quaderni di poesia e una rivista della quale la Vallerugo è stata redattrice. Per quelle sue prime poesie, ottenne diversi riconoscimenti: nel 1972 il premio “David”, che rappresentò per lei, agli inizi della sua attività letteraria, una sorta di consacrazione e assunse un valore simbolico molto importante. Subito dopo ricevette il premio Regione Toscana al Mugello-Resistenza e nel 1973 il premio Venezia-Mestre. Ha cominciato a scrivere in friulano soltanto dopo la morte della nonna materna Regina Cilia, soprannominata Maa Onda, che era emigrata giovanissima in Australia e da lì, per ragioni di salute, era tornata a vivere a Meduno. La Vallerugo andò ad abitare con lei, per tenerle compagnia negli ultimi anni della sua vita. Insieme nel 1976 vissero l’esperienza tragica del terremoto e condivisero una baracca per terremotati per tre anni. In quel prefabbricato di emergenza la nonna morì il 25 maggio del 1979. In quella stessa baracca, nell’inverno tra il 1979 e il 1980, la Vallerugo compose la raccolta di poesie in friulano intitolata Maa Onda, che fu pubblicata soltanto nel 1997, con la presentazione di Andreina Nicoloso Ciceri, nella collana “I quaderni del Menocchio”, dal Circolo Culturale Menocchio di Montereale Valcellina (PN), fondato e diretto da Aldo Colonnello, figura singolare di “maestro” e di “rabdomante”. A lui si deve la scoperta dei più importanti poeti friulani, in lingua e in dialetto, del secondo Novecento. Mistral è la seconda fondamentale raccolta di poesie in friulano, ed è stata composta a Meduno, nella casa paterna, negli anni 1981/1982. Di Mistral fino a oggi si conoscevano soltanto pochi testi apparsi su riviste e il fascio di liriche riunite in una plaquette, Figurae, pubblicata nel 2001 presso il Circolo Culturale di Meduno e inserita nella collana “La barca di Babele” (6), diretta allora da Pierluigi Cappello. In anni recenti, alcune poesie tratte da Mistral sono apparse, a cura di Franco Loi, nell’antologia Nuovi poeti italiani, 5, Einaudi, Torino 2004 (vedi). All’italiano la Vallerugo è ritornata nel suo terzo volume di liriche, Stanza di confine, pubblicato nel 2013 dall’editore Crocetti di Milano, con una prefazione di Pierluigi Cappello, che è essa pure poesia.
Foto di Chemello
Cuièt dormitôri vissìn al nuia.
Un louc, il mont
a sirvìssin encja par lassâlu.
Ma tu, muârta, i tu mi custrinç
a cuntinuâ a rompi l’infièr
cun una sapa di vêri
e una tromba baroca
e lostès crôdi, crôdi
crôdi encja, unmò, in chê roba
sipilîda c’a si clama puisîa.
Par te i tôrni a scrîvi in mai
una puisîa su la neif
c’a splanarà prèst i liniamìns
di Midun, dal mont,
la lôur memoria dôlcja selvàdia.
Scôlta, a cumincja cussì
la neif
i siô vuès di lûs, la fôrma perfeta, la fuarcja splendour
la neif à soul i nêstri vôi
par vêdissi.
da Maa Onda, presentazione di Andreina Nicoloso Ciceri, I quaderni del Menocchio, 2, Circolo Culturale Menocchio, Montereale Valcellina (PN), 1997, s.i.p.
Quieto dormitorio accanto al nulla.
Un luogo, il mondo
servono anche per uscirne.
Ma tu, morta, mi costringi
a continuare a rompere l’inferno
con una zappa di vetro
e una tromba barocca
e tuttavia credere, credere
credere ancora in quella cosa
seppellita che si chiama poesia.
Per te io torno a scrivere in maggio
una poesia sulla neve
che spianerà presto i lineamenti
di Meduno, del mondo,
la loro memoria dolce selvaggia.
Ascolta, comincia così
la neve
le sue ossa di luce, la forma perfetta, la forza splendore
la neve ha solo i nostri occhi
per vedersi.
Tibet Maa, normalitât me âlta
crolâda a colp tal sum, straviâda gjà
in sumis grandious
gjà entrâda, dòcil rispîr, in chê scûra fadîa
che dut a puârta e a trasfôrma.
Ce tant dûre la muart?
No, la fin a è finîda.
A è finîda la fadîa
da rinâssi ogni dì in cualchi mout.
Il murî di ogni dì, Maa, a è la muart
e jo i na pos pì da murî, Mâri.
In te ogni rispîr, ogni fâ
cussì sfadiâs a erin compàgns e diferèns
come i deiç da la tô man
unmò tèpida fra li mê mans.
Una granda leadûra
a tegnêva vissìn ogni cjo fâ dentri
il cuièt massàcr dal cjo mont contadin
acetât come la ploia e il sec.
Dut a dovêva êssi fat. Dut al ’veva
tal sio êssi compagn e diferènt
la lûs da la necessitât
la lûs generâl da la tô vita.
A n’al è chest
un voltâssi indavour al cjo mont condanât
radic gno plen di ploia
ma il cjo mont
a na ti aveva unmò tolèt
la sigurecja da rivâ a sera
no sfigurâs.
In me ogni interés, ogni fâ
a son da massa timp come distacâs
ognun par cont siô
fueis di lens diferèns
c’a si distachin dal stès ramaç.
A si è sbassâda di tant, Mâri,
a si distûda!
la lûs generâl!
c’a luminêa a la stessa manêra
ogni louc di un louc.
Chê lûs c’al è dut ta la vita
e s’a n’al è chest
a n’al è pì nuia.
Jo i na soi pì jo, Mâri.
“Tâs, no stâ dâmi chêstu dolour”.
Se chêsta a è unmò lûs
e no invessi i vôi drogâs
di chêsta lungja not dal vincjacinc di mai
c’a sumiêa da vê vôi e a plouf
meil di cassia e luna sul cjo cjarnêli
c’a si splana, sui prâs, su li citâs
sui continèns a la deriva.
Ma vuârdimi, tu chi tu à
li rèdini dal timp in man.
Cui pì di me àe voia da vîvi?
Cui pì di me àe voia da durmî?
Parcè il gno timp
al è forèst ai siô fîs
caliga di sanc pesât
c’a svampa in scûr.
La sola sigurecja, nissuna sigurecja.
E tu, tu i tu so muârta.
da Maa Onda, presentazione di Andreina Nicoloso Ciceri, I quaderni del Menocchio, 2, Circolo Culturale Menocchio, Montereale Valcellina (PN), 1997, s.i.p.
Tibet Maa normalità mia alta
crollata all’improvviso nel sonno, assorta già
in sogni grandiosi
già entrata docile respiro, in quella oscura fatica
che tutto spinge e trasforma.
Quanto dura la morte?
No, la fine è finita.
È finita la fatica
di rinascere ogni giorno in qualche modo.
Il morire di ogni giorno, Maa, è la morte
e io non ne posso più di morire, Madre.
In te ogni respiro, ogni azione
così faticati erano uguali e differenti
come le dita della tua mano
ancora tiepida tra le mie mani.
Un grande legame
univa ogni tuo fare dentro
il quieto massacro del tuo mondo contadino
accettato come la siccità e la pioggia.
Tutto doveva essere fatto. Tutto aveva
nel suo essere uguale e differente
la luce della necessità
la luce generale della tua vita.
Non è questo
voltarsi indietro al tuo mondo condannato
radicchio mio pieno di pioggia
ma il tuo mondo
non ti aveva ancora tolto
la sicurezza di arrivare a sera
non sfigurati.
In me ogni interesse, ogni azione
sono da troppo tempo come staccati
ognuno per conto loro
foglie di alberi diversi
che si staccano dallo stesso ramo.
Si è abbassata di tanto, Madre,
si spegne!
la luce generale
che illumina nella stessa maniera
ogni luogo di un luogo.
Quella luce che è tutto nella vita
E se non è questo
non c’è più niente.
io non sono più io, Madre.
“Taci, non darmi questo dolore”.
Se questa è ancora luce
e non invece gli occhi drogati
di questa lunga notte del venticinque maggio
che sogna di avere occhi e piove
miele di acacia e luna sulla tua fronte
che si distende, sui prati, sulle città
sui continenti alla deriva.
Ma guardami, tu che hai
le redini del tempo in mano.
Chi più di me ha voglia di vivere?
Chi più di me ha voglia di dormire?
Perché il mio tempo
è estraneo ai suoi figli
nebbia di sangue pesato
che svanisce in buio.
La sola sicurezza, nessuna sicurezza.
E tu, tu sei morta.
Ma il timp i na lu deit vô
che su li rivi i vi scalmanàit
da altri ombri pasturâs.
Nè vô, amâs, sul flum
cuntracurint gint, vô gno spèciu
mê ligrìa, arcos perfès e centros.
(Gioventût eterna e eterna cunfinàda.
I na pòs che stâ cun vô jo, cun la vita.
E tu, citât, làssa passâ li tô âs).
E a forin li cupuli, li tors di vêri
a tàinin l’ômbra dal Parlamint
fra li rami a pàssin dal salix babilonica
e prua a passa prua e a pâr avànsin
e chei bessôi adès a tàinin la curint.
Tanti ondi il flum? Tanti ondi il flum?
Come il mâr, pì una, lour.
La voga a la bat la polena
che cun nô a rispìra e a suda e indenant a vuârda
e me a govêrna e in vô a rît.
(Da Mistral, a cura di Anna De Simone, prefazione di Franco Loi, con un’incisione di Livio Ceschin, Il Ponte del Sale, Rovigo 2010)
Ma il tempo non lo voi date
che sulle rive vi scalmanate
da altre ombre governati.
Né voi, amati, sul fiume
controcorrente andando, voi mio specchio
mia allegria, archi perfetti e centri.
(Gioventù eterna ed eterna confinata.
Non posso stare che con voi, con la vita io.
E tu, città, lascia passare le tue api).
E forano le cupole, le torri di vetro
tagliano l’ombra del Parlamento
passano fra i rami del salix babilonica
e prua passa prua e pari avanzano
e quelli ora tagliano da soli la corrente.
Quante onde il fiume? Quante onde il fiume?
Come il mare, più una, loro.
La voga la batte la polena
che respira con noi e suda e guarda avanti
e me governa e in voi ride.
A ièssin da pìciuli puârti e subit a cjamìnin
âls par li stradi i cjâs luminous dai continèns
a pàssin lisèirs il cancel di ômbra
ch’a à fermât la generassion dai peis sglònfis
cussì, cjaminànt, pura lûs in muvimint…
A sflòrin i leons di bronz a guardia da li statui
dai pâris tutours da l’isula e dal mâr.
A pàssin denant li puârti di Harrod’s.
A traviêrsin a vous âlta la periferia incuièta.
Vecju mont ch’i na tu sa risveâti, mour.
I deos a son uchì, a domàndin di te.
“Ecomi” a rispunt jè saludant se stessa
ch’a la saluda fra di lour.
A vègnin discurint i deos fra li cjasi di piêra
di Pofâvri louc veir four da li mapi
’ndulà che la neif a cola in un silensi mîstic tibetan
e a si drècin a li ringhieri li luminôsi a ciantâ il resuressi
e i spècjus a riflètin ce ch’a riflètin
e a si slûngja tal radìc la tigre, a rît.
A vègnin a piè clamànsi i deos, àn ducjus
il siò non e soul sè a àn, Ana vôli viludât
plen di lampis di avòst a ven fasìnssi la strecia
la pensôsa, a clama. A vègnin discurìnt su moto
ch’a lûsin, fantàt biont ch’i tu rît e i tu so biont
a spândin in côrsa binzina e meil.
Par li stradi e li scjalinàdi di Pofâvri a vègnin
a s’incrôsin su la placia che soul
cuan ch’a son entrâs a è jè.
(Da Mistral, a cura di Anna De Simone, prefazione di Franco Loi, con un’incisione di Livio Ceschin, Il Ponte del Sale, Rovigo 2010)
Escono da piccole porte e subito camminano alti
per le strade le teste luminose dei continenti
passano leggeri il cancello d’ombra
che ha fermato la generazione dai piedi gonfi
così, camminando, pura luce in movimento…
Sfiorano i leoni di bronzo a guardia delle statue
dei padri tutori dell’isola e del mare.
Passano davanti alle porte di Harrod’s.
Attraversano a voce alta la periferia inquieta.
Vecchio mondo che non sai risvegliarti, muori.
Gli dei sono qui, chiedono di te.
“Eccomi” risponde lei salutando se stessa
che la saluta fra di loro.
Vengono discorrendo gli dei fra le case di pietra
di Poffabro luogo vero fuori dalle mappe
dove la neve cade in un silenzio mistico tibetano
e si alzano alle ringhiere le luminose a cantare il resurressi
e gli specchi riflettono ciò che riflettono
e si allunga negli orti la tigre, sorride.
Vengono a piedi chiamandosi gli dei, hanno tutti
il loro nome e solo sé hanno, Anna ha l’occhio vellutato
pieno di lampi di agosto, viene facendosi la treccia
la pensosa, chiama. Vengono discorrendo su moto
che luccicano, ragazzo biondo che ridi e sei biondo,
spandono in corsa benzina e miele.
Per le strade e le scalinate di Poffabro vengono
e s’incrociano sulla piazza che solo
quando sono entrati è lei.
… tîndi di nô perfet a la periferia dal timp
a ce che encja il timp dal câlcu e da la mâschera
al va bracant: storia e utopia un soul vin.
Utopia, utopia, che cussì veirs i tu si fai, utopia!
Ouf di lûs a gira lênta la placia
intor al sorêli, capsula pura, meravêa
– sì, i na finìn pì da meravêassi e avê
visions potênti encja sa neveàs par secui –
ta li fermadi dai cjants
– li schèni cuntra li schèni – i spetàn
da dentri e four di nô i cjants di rispuêsta
dai giovins dai nêstris âltris planès
cjapâs encja lour a nàssi, clamâ…
Diu diu che i peis a na làssin ôlmi!
Forç parcè che chêsta a è una lûngja nàssita
e uchì una vôlta al era il mâr.
La man ch’a scrîf
che una man ch’a scrîf a è soul
una man ch’a dà liniamins al misteri clâr
a strenç già Côlveri glaciadi e citâs indurmindìdi
specialisàda già in resuressiòns…
(Da Mistral, a cura di Anna De Simone, prefazione di Franco Loi, con un’incisione di Livio Ceschin, Il Ponte del Sale, Rovigo 2010)
… tendere di noi perfetto alla periferia del tempo
a ciò che anche il tempo del calco e della maschera
va braccando: storia e utopia un solo vino.
Utopia, utopia, che così veri ci fai, utopia!
Uovo di luce gira lenta la piazza
intorno al sole, capsula pura, meraviglia
– sì, non finiamo più di meravigliarci e avere
visioni potenti anche se nevicasse per secoli –
nelle fermate dei canti
– le schiene contro le schiene – aspettiamo
da dentro e fuori di noi i canti di risposta
dei giovani degli altri nostri pianeti
presi anche loro a nascere, chiamare…
Dio dio che i piedi non lasciano orme!
Forse perché questa è una lunga nascita
e qui una volta c’era il mare.
La mano che scrive
che una mano che scrive è solo
una mano che dà lineamenti al mistero chiaro
stringe già Colvere ghiacciate e città addormentate
specializzate già in resurrezioni…
“Cronaca! Cronaca! Essi realista!”
a mi ciga il venditour autorisât di ombreni
cuntra il monson, reduce da Auschwitz.
Epûr, i ài vuardât a lunc a l’âlba,
subit dopu Hiroshima, la lûs ch’a tôrna a luminâ
la part dal sum ch’a si pòs tocjâ, a lunc
i vi ài vuardât, amâs, distacâ cun li ònguli il glaç
dai vêris ch’a tornàvin a scurîssi cul flât
e la vuêstra man che girant a passa sôra
e il mont ch’al tôrna in chel cêrcli
e la strada di Pofâvri ièssi dal scûr
e sul prufîl glaciât da la culina Sara ch’a ven
discôlcia, e cun jè su la neif disens vidûs…
(Da Mistral, a cura di Anna De Simone, prefazione di Franco Loi, con un’incisione di Livio Ceschin, Il Ponte del Sale, Rovigo 2010)
“Cronaca! Cronaca! Sii realista!”
mi grida il venditore autorizzato di ombrelli
contro il monsone, reduce da Auschwitz.
Eppure ho guardato a lungo all’alba,
subito dopo Hiroshima, la luce che torna a illuminare
la parte del sogno che si può toccare, a lungo
vi ho guardato, amati, staccare con le unghie il ghiaccio
dai vetri che tornavano ad appannarsi col respiro
e la vostra mano che girando passa sopra
e il mondo che torna in quel cerchio
e la strada di Poffabro che esce dal buio
e sul profilo ghiacciato della collina Sara che viene
scalza, e con lei sulla neve disegni visti…
Ira di vento e sono al muro.
Portati il pensiero che mi sequestra
riportalo aria, desiderio o non sono.
E t’incrocio. Non ora, luna
non ora, e mi è più cara quella luce, lei sola nel buio.
Ma sei così limpida tu, serena.
Che vista sei, luna, ai rami d’inverno
e li rifletti su di me al muro e tutte si muovono su di me
queste forme e diverse sono da quelle.
Questa è un’ascella. Quello che là si fa, un profilo.
Quello un sentiero a un giardino improvviso.
Chi cammina, chi cammina in questo giardino
chi spezza i rami e si fa affanno il respiro?
Ma tu, perfetto fiore, non farti subito trovare,
è tempo di vivere, di appendere un sole.
Sarà una pesca questo punto d’ombra
nel palmo della mano, la stessa pesca che tu a tavola
sollevi alla luce e la ruoti piano seguendo le sfumature
e sì, dici, aspirando il profumo
è sempre quella pesca, gettato nell’erba la guardavo
oscillare sul ramo alla luna di guerra.
E tu chi sei che impollini ombre?
Levati di torno.
E non dire andando non sono reali
ma cosa non è vero?
Né che tanto saremo, luna.
(Da Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti editore, Milano 2013)
È un tutt’uno lieve
di carta assorbente
la barca al largo e il pescatore, li vedi appena segnare
il confine fra cielo e mare
un’immensità lui fra due elementi e li distingue e li congiunge.
Entrare in lui un attimo
sapere l’attesa paziente, i pensieri
in bilico, i divagamenti. Più probabilmente pensieri circolari
ossessivi, la snervante pazienza, dio come snerva
riposare un attimo, solo un momento
perdersi così tra veglia e sonno come una finestra all’alba
o fra le lenzuola in quei tuoi pensieri anfibi
la luce che fuori sale, le strade che si riempiono.
Camminerò sul marciapiede dalla parte del sole, il sole
non si ricorderà di noi il sole
lo strattone!
Non dargli corda, tira.
Radunati, tira. Ecco che cede, la lotta
sott’acqua duole, se duole. Eccolo che salta e si torce in aria
l’amo in gola, la nostra stessa danza
fra i muri quando la vita non ti riconosce più e più non ti salva
dalla vita. Ormai è ferito a morte
e smemorato più del mare.
Non hai saputo esprimerti al meglio, pesce, nel tuo elemento.
Se lo rigetto in mare non lo riconosce,
non mi riconosce, non è detto,
la salsedine disinfetta e orna ogni ferita.
(Da Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti editore, Milano 2013)
Ora che il crepuscolo invade la stanza
e tutto, tutto si allontana
– è l’ora maligna – mediocre accesso al tuo vuoto tu,
giri affamata e sazia per la tua periferia
poco fa inquieta, ora desolata, estranea.
Non un portiere che ti faccia salire a dormire.
Bisognerebbe spegnerle quelle insegne rosse e gialle, affogate
nella nebbia, “Scaccomatto”, “Paradise”.
Forse incontrerò il vecchio Socrate
che qui distribuisce volantini. È l’ora della filosofia, questa.
Provala qui, gli dirò, in questa foschia dorata,
la tua arte del levare una qualche vaga fisionomia,
una pietra, un’ala, una sillaba di Malvasia.
Discuti qui, gli dirò, mio giovane nipote.
Come sei giovane tu, quanto è vecchio questo mondo al tramonto.
Come vedi, qui non c’è un filo d’aria.
Sì, gli dei crescono in noi energici
e lievi, poi girano indolenti, un po’ rituali. Un po’…
Basta con le dilazioni del tempo, coi supplementi
di coscienza infelice, resurrezione dalla squama al pelo,
pelle di muta mille volte sfilata da esibire ai doganieri alla linea
d’ombra che si avvicina, in cambio
di un sonno che dolce ti prenda e profondo.
E dopo? Sarà stato tutto un sogno dopo,
risvegliandosi qui o nell’eternità,
una tazza di caffè in mano. E posandola ora
per applaudire il circo che entra in città.
Gli acrobati. La tigre. Il poeta.
(Da Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti editore, Milano 2013)
Luna dei giorni miei, luna accecata
se la pietà è morta, perché la poesia?
“La pietà non è morta. Non muore la poesia”.
Sono stanca, luna, e anche tu sei stanca.
*
Luna sul volto di mia madre
che non vista canta sulla clivia a fantasia, un canto muto
a labbra chiuse il suo. Tu guardala
come guardi dio che non visto canta.
Canta, Eva. Tutte le donne in te prendono a cantare.
O madre che sulla clivia canti.
*
Luna di Ritsos a Makrònissos
luna del rifiuto, del suo sì alla vita, tu l’hai visto scrivere
i versi sulle ginocchia al tuo lume.
E c’erano le sbarre, i secondini e l’Egeo per lui mattutino.
Sfiora per me il suo volto, luna.
Ho bussato alla sua porta
con una rosa ma mi ha preceduto la morte.
Fra i turisti, al sole del Pireo, cercava qualcuno Omero.
Nella tunica ho infilato la rosa.
*
Luna di Ostia, chi uccide Pasolini?
Tu l’hai visto lieto e disperato scavare
accarezzando la zolla fiorita di una terra lontana, irreale.
Scavando, scavando, la febbre che sale.
Quiètiti frut. Ragazzo, riposa. Tu designato
come da sé, sulle tue rive, la primula, la viola.
*
Luna sul volto di Federico
che non ha più una terra sua dove cercarti, luna.
Tu lo vedi, è sempre il bambino
che va avanti nel buio a stento come te sulle macerie nostre.
Poterlo stringere. Dire alla morte “È nostro”.
*
Luna Guevara tu l’hai visto a La Higuera.
Li hai visti i volti d’aria alla sua veglia.
Ora lui è il campesino che dopo aver cenato
esce a maggio a scuotere la mela.
Illumina la mano al ramo.
Illumina il ramo alla mano.
*
Luna Mandela
acqua di donna sul suo volto alle sbarre
tu che come lui splendi uguale per tutti
illumina, umana ancora, gli uccisi che prendono a camminare
dal fondo dei continenti.
Non splendere su una uguale sorte o la pietà si accechi.
*
Tu che come noi nel tuo vuoto vai.
(Da Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti editore, Milano 2013)
Sei tornato a casa con due vasi comperati all’edicola.
Sembrano anfore ma troncate
dove più si distende il grano, il vino.
Sembrano le anfore dei quadri
che hai dipinto da ragazzo. In silenzio le hai posate
sul tavolo, con calma, sicurezza. Un gesto definitivo.
“Vado a dormire” hai detto.
E ho seguito la tua testa sparire alla curva delle scale
presagio di quella curva del tempo
dove il tempo si distende e non c’è risacca, suono.
Solo il correre confuso di amore sulle rive.
(Da Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti editore, Milano 2013)
Sii lucida. Lucida e appassionata,
ciò che viene vuole essere atteso.
Ma fra la notte ancora qui
e la luce fra poco il confine meno scontato.
Non dire che il sonno colpisce sempre un attimo prima.
Non chiederti quanto distrugge la mano
che crea, è astuzia del sonno, rivincita d’ombre.
Tenditi mia vita, mia corda tenditi.
Fino a quando resisterai, funambola
in questa sospensione di mondi? Non basta al tuo giorno il tuo peso
il loro respiro sempre più debole
l’allarme di questa città assediata?
No, non ti dirò di rientrare,
di chiudere porte e finestre perché l’ago segna tempesta
e inchiodare assi, riempire la fessura
dove il raggio penetra e scopre la polvere, quanta polvere
in un raggio, e lo intercetti col tuo corpo, scendono per lui
i morti e i non nati ancora, l’odore del vivere incanta.
E scendi tu volto splendente:
“un serraglio di sposi col suo volto”, Qohèlet.
E coprire il lucernario
dove guardano il Sole e Cassiopea e ora preme un cielo di rovina.
Mettere al riparo i semi, soprattutto quello
che sfugge a ogni nome, il frutto più bello. E poi controllare
le torce e le candele percorrere e ripercorrere
la casa al buio, contare i passi
gli spigoli, l’asse che non tiene nella stanza
che confina con le onde.
Preparare un mazzo di carte nuove
per la partita con l’Assente.
Non ti dirò di rinforzare gli ormeggi
se mai è rientrata lei
errante, eretica, che ti assomiglia
ma no, non sei tu.
E avrà, come sempre, vela bianca o nera.
Sei così tu, mia vita, hai bisogno
di sentirti parte del tutto, e il tutto che respira
nel tuo volo di ape d’inverno.
(Da Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti editore, Milano 2013)
Ma mi assale il tempo. Non qui, non ora
in quest’alba calma fra queste colonne.
Non qui, non ora, in questo silenzio vivo, fra le voci
in cui sono nata. Abbiamo un appuntamento, tempo,
ma non qui, non ora, in questa perfezione
che lenta scompare.
E tu ti torci nella pietra lassù, cavallo,
occhio grande, spaventato. Calmati, sei perfetto così.
Vuoi tornare alla sua mano, tu.
Non è qui Fidia, con gli scalpellini morti di Meduno lui ora cena.
Non qui. Non ora. Ma con te non posso lottare.
Resta allora, senso del tempo, che dandomi la misura del passare
pronta mi fai a partire dove non arriverò.
Nei vapori mattutini riavvia la ruota Atene e sono anch’io
nel coro di voci e rumori a contrastare il coro improvviso
di antichissime cicale che grideranno
ancora insieme qui, solo loro…
Ma impigliata negli sterpi, la ciocca del dio
che ci corre nelle vene di dormienti inquieti che aspettano
di risalire per le giovani linfe che spargemmo
nella tua dura luce, nostro umano passare.
(Da Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti editore, Milano 2013)