Gian Mario Villalta è nato a Visinale di Pasiano (Pordenone) nel 1959. Liceo Scientifico a Pordenone. Laurea in Lettere Moderne all’università di Bologna. Prime pubblicazioni sulle riviste “il verri” di Luciano Anceschi, su “Studi di Estetica” e su “Alfabeta”, ancora alla metà degli anni ’80. Negli anni successivi scriverà anche su ClanDestino, Tratti, Nuovi Argomenti, Testo a Fronte, Baldus, Diverse Lingue. Insegna in un liceo dal 1984. Ha pubblicato i libri di poesia:
in dialetto (veneto periferico): Altro che storie!, Campanotto 1988. Premio S. Vito al Tagliamento (giuria: Zanzotto, Naldini, Turoldo, Giacomini, Guarneri) ; Vose de Vose/ Voce di voci, Campanotto 1995. Premio Lanciano (giuria: Loi, Rosato, Giacomini, Serrao, …) (ristampato nel 2009); Revoltà, Biblioteca Civica di Pordenone, 2003
in italiano: Traccia, Niemandswort, Bologna 1982; Limbo, Nuova Compagnia Editrice, Forlì, 1988; L’erba in tasca, Scheiwiller. Premio Laura Nobile (giuria: Fortini, Luperini, Nava,…); Malcerti animali, in Terzo quaderno italiano, Guerini e Associati, 1992; Nel buio degli alberi, Circolo culturale di Meduno, 2001; Vedere al buio, Sossella 2007; Vanità della mente, Mondadori, 2011 (Premio Viareggio 2011). Tradotto in antologie e riviste in Francese, Inglese, Sloveno, Serbo, Olandese. Numerosi gli studi e gli interventi critici su rivista e in volume - tra questi i saggi: La costanza del vocativo. Lettura della "trilogia" di Andrea Zanzotto, Guerini e Associati 1992 e Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli 2005). Ha curato inoltre i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, Mondadori 2001 e, con Stefano Dal Bianco: Andrea Zanzotto, Le Poesie e prose scelte, "I Meridiani" Mondadori 1999. Tra gli altri interventi, da ricordare che nel 2007 ha redatto l’aggiornamento della voce Poesia per l’Enciclopedia Italiana Treccani e nel 2014 un suo contributo su Belli e uno sul verso libero fanno parte del 3° volume dell’Atlante della Letteratura Italiana Einaudi. Nel 2002 inizia l’avventura pordenonelegge, il festival della lettura e del libro, che da allora è cresciuto fino a diventare uno dei più importanti in Italia.Il suo primo libro di narrativa, Un dolore riconoscente, è uscito presso Transeuropa nel 2000. Poi sono venuti i romanzi Tuo figlio, Mondadori 2004, (vincitore al Vittorini, al Fenice Europa, supervincitore del Napoli – vincitore del “primo romanzo italiano” a Chambery) e Vita della mia vita, Mondadori 2006 e Alla fine di un’infanzia felice (Mondadori 2013) (due finali di premi: Dessì e Fabriano). Nel 2009 ha pubblicato il non-fiction Padroni a casa nostra (Mondadori): un ritratto del Veneto e del Friuli Venezia Giulia tra fraintendimenti e conflitti.
X
Vien scuro drento i veri, n’aqua lenta.
Vien scuro te le man, el porta un fredo
che no l’è de la tera, un scuro che ’l ne sprofonda te la cova del mondo: là fora i sarà ’ndài soto - tut el paese, soto un lago de scuro
e na stropa de scuro tra ’l sangue che ’l vien
al cuor e ’l sangue che ’l va
la divide la casa dal vodo:
de qua na montana de scuro,
e l’è ’ndà soto romai la luna e mesi e intiere staiòn: sta su el let, la scala, la cusina
co la so luse amara.
Sta a gala el lavoro, la strada
che ne liga e la sitimana
de ferie su la spiàia del gnent.
Altro, l’è tut là soto, te ’lscuro,
tut el futuro – che ’l va!
(Proprio mi
a dirlo - che no ò lassà ’ndàr nissùn,
gnanca i morti
te la so mort - no so tégner nissùn,
mi, strent, come scuro tel scuro).
Da Vanità della mente
Ho aspettato la fine della giornata, e la stanchezza
per accostarmi a questa terra
e non ho portato fiori,
perché li ha fatti la terra, i fiori, e se li prenda.
Ti ho portato le mani, le ho posate
su questa terra squadrata, perché le mani
le ha fatte nostra madre e non possiamo renderle.
[...]
Così si manca per astio
da una casa, così si va via
per sporcarla, lasciando là tutto per sempre
nel disordine di ogni giorno.
Un’ultima volta la giacca nuova,
riporla nell’armadio, con un sorriso: così
si dovrebbe, ho pensato.
Una battuta, un “A dopo”: così.
In ospedale, il corpo – più piccolo
e già altrove, un altro.
Guardare la notte intera la televisione
per una notte, quattro notti,
per confondere i sensi, il sonno.
L’asfalto a poche spanne.
Molle – ovunque – la strada.
“Là dentro, è là dentro”, acceca.
Adesso la buca, i colpi di pala.
Non ho potuto.
E gli sguardi, le mani che toccano dove mai
tra estranei: il collo, l’interno del braccio.
[...]
Sanno di cenere le labbra e sabbia
nell’incàvo del sonno, sanno come
si apre tutto e si affonda nella notte
insieme con la casa
muti.
Cosa c’è nella pietra?
Lontane nuotano nuvole –
mani vuotano il cielo. Cosa c’è dentro la pietra?
Sanno di acqua, le labbra, di pianura
e latte freddo, attesa, indecifrabile scrittura delle stoppie,
sanno come si parla alla pietra,
come la pietra
ascolta.
Nessuno aiuta il nostro dio
a continuare la creazione,
nessuno più lo pesca in fondo al male
con l’anima-uncino: anche uno solo
di questi bocconi risputerebbe: alito
e argilla, i semi neri del nostro sonno.
Anche la pietra cresce, una parola
calcarea goccia bianco
su bianco – nessuno aiuta il nostro dio
a scrivere ancora –
e il cielo, l’erba, di che cosa
devo meravigliarmi.
Da Vanità della mente
La pressione dell’erba nuova aggruma il verde
a un centimetro dal suolo, in sospensione.
Così le parole di chi si innamora
formano un nuovo colore
sul parlare comune, delimitano appezzamenti del sentire,
contendono alle frasi il nutrimento.
Così si forma la lingua famigliare,
così cresce e diventa quotidiana
la lingua propria del sentimento
di quegli unici corpi, di quei muri,
quella scansione condivisa del tempo.
La lingua che i figli falciano e disseccano
crescendo, disperdono di nuovo per distrazione,
per la pressione del desiderio, per amore.
Da Regione (Vanità della mente)
Lato di case dall’autostrada.
Un bosco alto e veloce
più vero nel retrovisore
con la musica piena, il bagliore.
Tutto si perde nella scia dei chilometri
via via che i paesi giocattolo sghembano sorpassando
con le altre immagini.
È stato contro lo specchio dei lavandini, entrando,
ho visto l’uomo con un colpo ferirsi la mano,
lei lo ha insultato, si sono abbracciati nei cappotti,
poi il bacio con la lingua, il fiato grosso.
Due lottatori che possono un’unica presa.
Due bambini di settant’anni
spinti senza difesa nel biancore.
Da Regione (Vanità della mente)
Camminiamo illesi dentro il sole,
le nostre giunture di vetro risplendono nel pulviscolo, l’inverno
diffonde una corretta informazione.
Ho visto bianche le labbra dei bambini
al dormitorio, i loro capelli sottili
arricciolarsi in lanugini odorose,
le membrane nel sonno respirare
in un gorgoglio di gora, poi i bisbigli,
la poca luce raccolta
nella curva inerme della nuca.
È dormire ancora, questo latte nero
che intiepidisce i muscoli, oppure è altro il sogno
che li consegna a una luce senza tregua,
trasparenti le palpebre, le manine a pugno?
Da Regione (Vanità della mente)
La forza che spacca il tempo dentro il legno
e trascina le pietre nel mese di marzo
a valle dei torrenti, l’accanimento della materia alla rovina,
a rinascere, lo sforzo della mente
per figurarsi la pioggia innumerevole,
per arginare i silenzi, dove cede
a un limite breve, a un’ombra, dove diventa
nostra, e subito felicità, subito angoscia?
Da Regione (Vanità della mente)
Un viso, nell’opera degli anni, quando si compie?
Uscendo dall’adolescenza, quando pare fermarsi
per la prima volta, dopo tante prove e i tentativi
di assomigliare a un parente, o a un amico, falliti?
Oppure quando passati i quaranta anni,
nel peso delle palpebre, nell’esimersi delle labbra,
nella tensione delle narici, il carattere,
le manie, vengono fuori, i vizi, la memoria
che adesso occupa il suo presente?
o quando, prima della devastazione, vi si imprime
l’ultima forma, semplice, riassumibile in poche linee
essenziali, l’effigie, la caricatura?
Da Regione (Vanità della mente)
Affanno nel fogliame, nell’attesa
della prima sgrondata di piovasco.
Tu che sei sceso dall’auto per pagare
annusi l’aria, alzi il bavero, ti guardi
nella vetrata mentre ti avvicini.
La bandiera tentenna nei tiranti.
Tu alla colonna della benzina
con la faccia controvento di trequarti.
L’uomo prende la carta, l’erba alta
preme sul cartellone con un paesaggio
appoggiato tra il marciapiede e il muro.
Tu e le tue dita che perdono lo schema
delle cifre da imprimere sulla tastiera.
Quando riparti (hai pagato, confuso
– dopo altri due tentativi – in contanti)
l’uomo è rimasto immobile a guardarti
come avresti ripreso la strada con quel sorriso.
Da solo guidi e non smetti di sorridere.
Non puoi smettere di sorridere, è normale, succede,
non vuole dire niente non vuol dire.
Da Regione (Vanità della mente)
La luce si alza verso il cielo sopra le luci
e il buio dolce degli edifici
abbraccia a lungo lo sguardo.
La luce si alza con un respiro
e promette a tutti un segreto, quiete profonda, pianto.
Passano una sull’altra
facce nelle auto che incroci,
le guardi, a cosa appartieni questa sera, a chi parli?
La lingua perduta degli stormi
che alti si adunano nella luce.
La lingua dei perduti per una parola
non detta, per una parola distorta pervenuta all’orecchio.
Per una volta non sia la ragione o la colpa,
chiama tu, pronuncia le parole che più non hai detto.
Non c’è vergogna se trovi nel cielo di questa sera
fiducia in qualcosa che non conosci,
e non la vita che si sogna,
ma qualcosa di tuo nella vita che vedi.
Adesso componi il numero, adesso chiedi.
Da Regione (Vanità della mente)