Laureato in Lettere all’Università di Pavia, Giorgio Mobili (Milano, 1973) vive negli U.S.A. dal 1999. Nel 2005 ha ottenuto il dottorato in Letterature Comparate dalla Washington University in St. Louis, Missouri. Attualmente insegna alla California State University di Fresno. La sua poesia in lingua italiana è apparsa nel volume collettivo 1° non singolo: Sette poeti italiani (Oèdipus, 2005), in varie riviste (tra cui Poesia, L’immaginazione, Steve, Gradiva, La Clessidra, Fili d’aquilone), ed è stata inclusa nell’antologia bilingue Poets of the Italian Diaspora (a cura di Joseph Perricone e Luigi Bonaffini, Fordham UP, 2014). La sua prima raccolta, Penelope su Sunset Boulevard, è uscita nel 2010 presso Manni. La seconda, Planet Maruschka, è apparsa nel 2013 presso La Vita Felice. Dello stesso anno è anche la sua prima raccolta in lingua spagnola Última salida a Ventura. (Mago Editores, Santiago, Cile). Waterloo riconquistata, la sua terza raccolta in lingua italiana, è uscita presso Puntoacapo nel 2014, ed ha ottenuto una Segnalazione di Merito al Concorso Nazionale di Poesia Città di Sant’Anastasia (XII Edizione, 2014). Una nuova raccolta, Miracoli ed effetti, uscirà nella primavera 2016 per i tipi di Pequod. È anche autore di traduzioni poetiche, avendo volto in italiano il poeta brasiliano Narlan Matos e il cileno Ennio Moltedo.
Si procedeva come ciuchi, tra gorghi
e malefatte, osservando la catena di silenzi
e schiuma correr via, i fari accesi, il vento
in fitta entrata dai versanti: un mero spasmo,
niente più, ci separava dalla curva cosmica.
Quello era il tempo (la riminiscenza è ingrata)
dell’immancabile Suzuki, icona prodigiosa
grande nutrice di una vita non d’attesa
ma d’attore, se pur soggetta a turbini arroganti
e marezzata da aggravi e sentimenti.
Stasera ci sarò come promesso
benché il tessuto s’assottigli, ora, più rapido
a puntar la decorrenza, senza più eccessivo
attrito – senza più troppo bisogno,
notte o giorno, di fare e di disfare.
Da Penelope su Sunset Boulevard (Lecce, Manni, 2010)
Abbandonarsi alla ruota
del panta rei
la casa in groppa al vesuvio
giù nell’amaro gettare chi si salverà
da quel secondo diluvio...
Leggo molto per capire
chi siamo, per capir che non siamo
ma il gran segreto è vuoto
e che ci vuoi fare, qui al mare?
L’odiato agosto ci ha cotto
la pelle e ormai
ha fulminato gli elastici
al parlamento dei sogni perorano
solo alleati meccanici...
e sotto l’astro immura
la donna velata nel carico e scarico
e oltre l’onda, il nulla
(che mosse Colombo, in fondo)
Da Planet Maruschka (Milano, La Vita felice, 2013)
Dio che cosa mai daremmo
per una piccola albanese a ore
non per servire da ornamento
o da sorgente di calore
ma per strapparci dalle spalle
la polvere di queste strade
che ci ripulisca con premura
prima di rotolarci nella roggia.
Ci si può mettere d’accordo
per quella piccola albanese a ore
che ci accompagni ai vecchi orti
prima che ci mettano una rete
avrà una chiave in dotazione
e una lingua che sfiora, ma non parlerà...
Ho viaggiato come chi inseguisse
l’unica valida ragione
per ritornare incolume alla stessa
topografia senza esistenza
la cartapecora del viso fitta
a suggerire spurie verticalità
prese tra i denti alla nascita
ma fatte del sale delle scale altrui.
Ah, ma quella piccola albanese
anche solo per due minuti
quelli finali sgocciolasigilli
delle mosche che offendono l’attesa
tienici il polso per firmare
poi càlaci in fretta nella terra
le ultime gocce di mar nostrum
un giovedì mattina di sole.
Da Waterloo riconquistata (Pasturana, puntoacapo, 2014)
Giorno di scialuppe (chi ci pensava più)
con giri di stoppa, lo annunciano i pennuti
non spuntano fiori da due stagioni
e ora quel faro, laggiù...
Appesi alla carcassa di un cinema d’essai
questa sera alle venti, per sempre, Casablanca...
ma l’aria ci sfianca – è la persistenza
dei moli perduti a Concón.
Gialla California, astro senza nuvole
quante ne hai vinte d’emblée.
Tre urrà per l’avvocato, il dottor Washington
dimentica tutto se puoi
(anche per noi...)
Se c’è un limite all’affanno, che dio lo stabilisce
chi assegna le date, chi lo sa quando svanisce
nell’impermanente – la permanenza
dei moli perduti a Concón.
Quattro passi giù in centro, dove ogni travaglio
riposa a denti stretti
e c’è abbastanza terra sotto di voi
se pur cedesse la rete.
Quella gioia che tiene, è senza fondiglio
di sogno o sentimento
(tornasse Giuni Russo tra noi
a ipnotizzare i gabbiani...)
E ad un cenno, il vecchio albergo delle intimità
sontuoso – salta in aria
volano i falsi da Messina, e tu...
Ma si sbaglia – si sbaglia di più
mani giunte alle caviglie
a rimetterlo in piedi in segreto.
Simpatico il DJ, la maglia rossa scherza
“Lei non sa chi suono io”
poi di ritorno per La Ciénaga, mio dio
stanotte questo rudere non sterza
brilla sul muro il rimmel di Michiko Kanba
nella taquería giocano sponda
per Falling Day.
Trema Natsumi: “noi due tomodacì ”, ma intanto
cadono le prime rane dai lampioni
fari qua e là inchiodano il sesso degli impuri
e il cinque ormai non tratta con il sei
il tuo corpetto irradia luce, oppure
è già lo strobo dei padroni
su Falling Day.
Dalla gualdrappa di un pallone sventoli
vecchie consegne carbonare
cresta-rinaldo, giacca a piombo e cravattino
mentre ara tua moglie col vicino
quel solco nel suolo un silenzio aperto
sugli sviluppi e il saldo
di Falling Day.
Quelle sere d’estate, senz’altro da fare
le stesse birrerie –
tra i fumi lei ci raccontava del padre
gran consulente d’arte
truffatore discreto di ricchi impresari
e un giorno mentre parlava – ricordi ?
quel tipo che di colpo si alzò
per stringerle la mano...
Poi rientrando, ci accompagnava un universo fitto
di agenti microscopici intenti
a cancellare ogni scia
dei percorsi, degli slanci di gioventù
ogni forma già disposta
a scenario di adulte abulie.
Gli autoscontri sputavano scintille
ad arco sulla spiaggia
mantenuta in mistero essenziale
dal bikini giallo dell’accompagnatrice
dei ventotto sordomuti
mentre il cowboy padano
dal bugigattolo della giostra accanto
gestiva il codino e a richiesta
le mamme irredente.
L’angolo di incidenza della luce
la pesatura dell’aria
faceva pensare alla legione straniera:
a quando senza ricorso
ancora inconclusa l’impresa
ci giunse il comando secco
di ripartire.
Il sentore di una vita diversa, della sua
semiaccessibilità
è un faro di notte che ti inchioda al portone
è un cucchiaio di minestra
che permane due battute a mezz’aria
tra la scodella e la bocca.
La donna al tavolo di fronte, giuri
era un uomo pochi anni fa
ti credo, ma attento a non alzare la voce:
forse è tutto compreso
oppure l’alba per il commendatore
sarà una bella sorpresa.
I prescelti litigavano in fila per essere
ammazzati per primi
nell’ansia di accedere a un piano più vero:
il cielo si fa più nero, dicono
per la luce del gaudio che attende
dietro le torri di fumo.
Anche noi vorremmo saper scegliere
tra restare e tornare
se muovere tutto su un nuovo terreno...
troppe volte ci accade
di scordare il nome sotto i tetti
e addormentarci per strada.
Con che brio tutti i bambini della terra
fanno cadere il calamaio
in scorno al dogma gravitazionale.
Noi non vogliamo esser da meno:
guardiani degli alberghi tristi
l’arroganza della luce piegheremo
a schermo delle vostre ombre cinesi
per ripetere fino alla dissolvenza
il discapito obbligato
di amori e resistenze. Sulle mura
del palazzo incideremo in rosso gotico
ogni proposizione indecidibile
e con punta d’argento su carta preparata
la lista degli oggetti mai smarriti.
Con una linea di boe tra riva e scoglio
separeremo i ribelli
dai semplici urlatori, e le donzelle in alto
sereneremo senza rima
dai miseri selciati dell’estate.
Fiduciosi nel ritorno non identico
scenderemo ogni mattina di buon’ora
a sprimacciare i voti della sera:
a battere col piede sul pneumatico
prima di prendere la strada.