Federico Pacchioni è nato a Carpi nel 1978. Si è formato attraverso un percorso di studi umanistici e pedagogici e di stage volti all’applicazione dell’esperienza estetica nell’insegnamento della lingua e cultura italiana all’estero, conseguendo nel 2010 un Ph.D. in italianistica presso la Indiana University Bloomington. Ha insegnato presso la scuola italiana di Middlebury College, alla University of Connecticut, ed è titolare della cattedra Sebastian Paul and Marybelle Musco Endowed Chair in Italian Studies alla Chapman University, California, dove insegna corsi interdisciplinari e cura la programmazione di eventi culturali. Ha pubblicato poesie su Italian Poetry Review, Gradiva, Sinestesie, Graphie e Neoteroi. Nel 2014 è uscita la sua raccolta d’esordio La paura dell'amore presso Raffaelli Editore. La sua ricerca si concentra su casi di sinergia artistica e intermedialità tra cinema, letteratura e teatro, nonché su approcci estetici alla didattica della lingua e cultura seconda.
Oltre a numerosi saggi e traduzioni in rivista e volume, è autore di L’immagine del burattino: percorsi fra teatro, letteratura e cinema (Metauro Edizioni, 2020), Inspiring Fellini: Literary Collaborations behind the Scenes (University of Toronto Press, 2014), co-autore di A History of Italian Cinema (Bloomsbury Academic Press, 2017) e co-curatore di Pier Paolo Pasolini. Prospettive americane (Metauro Edizioni, 2015).
Ricominciare da capo
a ogni foglio,
con il tratto leggero
evocare il guardiano
che apre la porta
vecchia e trasparente
con il mondo,
senza indugio rincorrere
il mulinello d’aria in fuga
le sue foglie volate.
Perché Dio parla di più
se sa che dall’altra parte
c’è qualcuno che scrive.
Smembrato il mondo quassù al cielo
immolato piatto d’estasi, i tuoi cimiteri
sono fitti di fiori impazziti, sii benedetta
terra di Taos
per la bellezza che sacrifichi,
per la tua morte che è anche la vita.
In tutto quest’oro San Francesco
faceva crescere il mais.
I missionari stanchi tralasciarono formalità
e rimase solo il cuore nudo in comunione
di simboli, sugli altari tra i pigmenti nativi
Cristo con un sorriso diverso. Sii benedetta
terra di Taos
che allatti oltre i nostri piccoli noi.
Nell’interiora della foresta
calmo e sorpreso
mi rivedo pezzo per pezzo
in segni di rocce enormi,
mi scavalco nei passi
come mercurio inghiotte
altro mercurio.
Con la carta superstite
ai capricci del fuoco
traccio sedimentate parti di me,
lascio volare fogli
nei crepuscoli di fresca luce.
Per un equilibrio presente,
anche se a chiederlo a un soffione
prima di spanderlo nel vento.
Fuori da città e da cosmologie
cieche, dal gonfiore del cuore umano,
palpitano rade periferie
energie in circuiti di pantano.
Più rara è poi l’umile campagna oltre
le vene blu di vie
su una pagina quasi volta
dell’anonimo libro sociale.
Due facce ha l’immigrante metropolitano:
l’una è il nome del suo frigido amore;
l’altra non la conosce, se inodore
non spira un tedio lontano, di cielo.
Passo accanto ad altri amori
come l’astinente fa coi fumatori
così mi torna a mente
il cuore vivo che singhiozza
ancora qualche palpito;
la paura arde nei giorni
divenuti ore.
Chi coltiverà il mio nome,
la ragione a cui sono stato educato?
e dove porta questa strada?
Pavento d’ignorare tutto
in un imbruttimento parimenti illimitato.
Fluttua perdendosi il filo di me
anche l’inchiostro par staccarsi
e dal foglio volare, il taccuino
nascosto nella giacca
come l’arma di una spia.
Capisco finalmente i monaci
la nascita d’ogni religione
e quasi vago per le strade
in cerca d’una setta
io che già prego
ineluttabilmente.
Sono nella mia figura
quei sigilli, nello sguardo
un timore di santità, e io
che so nulla posso spiegare,
qualche frivolezza empirica
che indichi il miracolo
sul comune specchio culturale.
Con la scusa di restituire libri esco
seguendo un filo grigio nella sera.
Il salone della biblioteca accoglie
come una stazione.
Passo sotto il fresco buio di piante
scoppiettanti di creature sconosciute
e arrivo sino alle porte dell’università,
dove inizia un altro paese.
Fantastico di entrare in un bar
ordinare da bere di trovarci uno
di quei vecchi amici
che non valevano una cicca.
Sono passati dodici anni
e Alberico non può più tornare,
non può più tornare col suo nome di ragazzo,
non può più tornare se non con una maschera
di titoli come pezze colorate
come un arlecchino che ha studiato.
Sono passati dodici anni,
il tempo ripulisce impietoso
tutte le inconsistenze,
scansa parti dell’affetto
sempre più in là
con la gomitata assente
della macchina da scrivere.
Non tengono i lacci rattoppati,
non resistono più al vento
i tanti manichini. Amici,
un bullone lento
che non so stringere,
una confusione di posizioni
come in un alveare di gatti,
un paese di sedie vuote.
Sono passati dodici anni,
in queste feste di commiato
il mio dono rimane incartato.
Come sculture in gloria del mare
San Marino, San Leo, come onde di terra
trampolini verso il cielo.
Da sempre le silhouette azzurre
dei colli montefeltrini, del riminese, del Rubicone
hanno ricordato agli occhi figli di questa piana
tersa e salata alle loro pendici
familiari anche fino alla nausea
l’oltre.
Ripercorrendo le creste fresche e assolate
tra gli orti, i frutteti, i casolari
i cimiteri scalcinati, ritrovo
una geografia immaginaria,
partecipe solo a pochi giovani
come un mondo segreto e parallelo:
sotto una discesa una Svizzera ombrosa,
l’Irlanda con le sue selvagge aperture
da un tornante o da un colle spelacchiato.
Ma è proprio l’evidenza, la dolcezza
dei sapori a rivelare la caducità del frutto;
perché ora il mito è altro, storia, schermo
che osserveranno occhi nuovi
che nel ritornare qui non torneranno.
Hai seguito la sirena dei fiori
tra le erbe secche dopo cena
gli steli duri resistevano
alla tua mano ancora piccolo
ed era una confusione di semi
nella tua maglia all’uncinetto.
Ti ho ricordato allora del vento
che soffiò un giorno tra gli alberi
dietro la casa lontana
di come per imitarlo suonasti
per la prima volta un flauto,
ti ho raccontato anche delle idee
che piumate si moltiplicano
nella sera terrena senza fine.
Tu facevi una cantilena
di vocali aperte alla sorpresa
e fissavi serena e intenta.
Non avevi ricordi ancora
e il desiderio era quel momento stesso
il mio invece un lamento
per assenza di anni
che subito si è spento nell’aria piena
di quella nostra sera sul prato
dei soffioni fuori Cesena.
L'antichissimo sito sacro è stato scavato
in cima alla catena montuosa
proprio oltre le nuvole:
da là emanava i suoi influssi ai paesi.
Vi accorrono tutti poco a poco, sorpresi e intimoriti.
La roccia ha un profilo di padre freddo
che gela e intorbidisce il sangue.
Il suo incantesimo agisce ormai a cielo aperto.
Ma saranno i prossimi attentati i più insidiosi,
scenderà disperato dentro i ghiaioni
sollevando polveri, chissà ancora quanto.