Ernesto Livorni è Professore Ordinario di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea, e di Letterature Comparate, presso la University of Wisconsin – Madison. Le sue pubblicazioni includono Avanguardia e tradizione: Ezra Pound e Giuseppe Ungaretti (Firenze: Casa Editrice Le Lettere, 1998) e T. S. Eliot, Montale e la modernità dantesca (Firenze: Casa Editrice Le Lettere, 2018). Egli ha anche tradotto in italiano e curato Ted Hughes, Cave-Birds: Un dramma alchemico della caverna (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2001). Oltre ad essere direttore della rivista L’ANELLO che non tiene: Journal of Modern Italian Literature, Livorni ha pubblicato articoli sulla letteratura italiana medievale, moderna e contemporanea, come pure articoli di letteratura inglese e statunitense, italo-americana e di comparatistica. Livorni ha anche pubblicato tre raccolte di poesie: Prospettiche illusioni (1977-1983) (1987), Nel libro che ti diedi. Sonetti (1985-1986) (1998) e L'America dei Padri (2005; traduzione inglese di Jason Laine: New York: Bordighera Press, 2016). La raccolta Onora il Padre e la Madre (1977-2010) (Perugia: Aguaplano – Officina del Libro, 2015), che raccoglie le tre raccolte pubblicate ed una nuova raccolta, è stata tradotta in romeno (Craiova: Editura MJM, 2017).
I
Due mesi viaggiò prima di giungere
e l’anno perfino mio nonno, suo figlio,
l’ha dimenticato: che differenza
ci fosse tra gli olmi a Marulli
e quelle grandi sequoie
presto anche lui l’ha dimenticato.
L’arrivo non fu di quelli trionfali,
anzi, per vero, nemmeno s’accorse
ch’era arrivato. Si vide disperso
tra la sabbia che rossa al mattino
rendeva di fuoco creste di roccia
e il cielo turchese vampa di vetro.
Cosa facesse ancor oggi è mistero,
ma pare spaccasse la legna; forse
le schegge avrebbero dato una luce
se tanto il sudore in gocce rapprese
non gli avesse nascosto allo sguardo
l’alba che ogni mattino scioglieva
il sonno e le membra dentro la tazza
e fondeva nel fumo il respiro.
Due mesi viaggiò prima di giungere
e l’anno non l’ho mai saputo:
che differenza ci fosse, d’altronde,
in quel tempo di carri bestiame
e l’era che sprizza le fiamme
rimane un’onda leggera, che bagna
appena la sabbia, e il mare riassorbe:
presto anche lui l’ha dimenticato.
II
“Il mare è infatti la mia passione piú profonda: ‑ m’attira veramente come una patria.”
Gabriele D’Annunzio
Il mare allora m’appariva
come un presagio, l’ignoto
che ogni futuro nasconde
m’arrideva sulla cresta
di onde che bianche di spuma
sbavavano la mia voglia d’andare.
Non ero ancora vecchio abbastanza
per solcarlo ad occhi chiusi,
non avevo ancora vissuto
metà della mia vita per temerlo,
e lo guardavo carezzarmi
come un’esperta fanciulla azzurra.
L’avessi potuto stringere in pugno
e lasciarlo andare a mio piacere,
l’avessi potuto abbracciare soltanto,
ebbene avrei riso, avrei riso
e null’altro m’avrebbe fermato
se non la scandita liquida fuga.
XIV
New York di notte è un sassofono
che tinge il cielo di velluto blu
con le vetrate slanciate ed opache
dei grattacieli senza tetto, sfida
perenne nello spazio che s’incaglia
tra i reticoli di strade ed avenues,
dai quali invano una fuga o soltanto
un rifugio parziale cerchiamo;
un sassofono d’ottone
che si distende nella notte gialla
di luci intermittenti a Manhattan
in un’orchestra di taxi che vanno
(la metropolitana in sottofondo)
tra le dita nere di minoranze
etniche, nelle radio alternative,
sulla pelle bucata di ambulanze.
New York di notte è un sassofono
che tinge il cielo di velluto rosso
nella rabbia calpestata ai margini
dei fuochi ad Harlem, nelle metaforiche
gabbie del Bronx e dello zoo parte
siamo anche noi del Village e di Broadway
non restano che i gatti disperati
mentre annusano polvere e siringhe;
un sassofono in luminescenza
sotto i riflettori di quel concerto
di cui la musica mi balla vene
martoriate dal pulsare sudore
e pianto nell’iridescenza solita
del giorno che s’alza ancora fatidico
come un pendolare che voglia suonare
quest’ultima nota prima dell’alba.
XXIII
Ode all’America
“America qua, America lá,
dov’è piú l’America
del padre mio?”
Rocco Scotellaro
L’America terra che accoglie, come puttana
pronta per tutti; l’America come conquista
col fascino di frontiera sperduta.
L’America terra d’acquisto,
l’America terra che prostra, come padrone
che sfrutta; l’America nuova Terra Promessa
come un viaggio senza ritorno.
L’America grande Babele,
crogiuolo di razze e di religioni,
di lingue culture e disperazioni,
di luci la notte su strade deserte
e fredde vetrate di grattacieli,
non guglie slanciate di cattedrali!
L’America t’offre le luci per accecarti
senza sapere, ti nutre e ti spinge a sperare
senza il coraggio d’amare la vita,
senza né raggio né piena catarsi,
ed ogni sogno dura una notte.
L’America ride tra le cortine velate,
ti succhia le labbra come pompelmi,
poi prende, ti gira e lenta ti fotte.
L’America asciuga ogni goccia del mare,
te le ficca negli occhi, ti forza a sognare,
ti spinge da dietro come per gioco,
ti sparge benzina e ti dà fuoco.
America America America
L’America scende senza piú senso
finché Atlantide la chiameranno;
l’America come leggenda è come uno sputo
che si dilata; l’America terra di mito,
terra di rito, ti guarda con gli occhi
di un bimbo anemico, senza piú sangue,
senza piú rabbia, senza piú nessuna speranza
e celebra inerte idoli danzanti
come l’ombre intorno al fuoco che presto divampa.
XXVIII
La pioggia cantava sorniona
una canzone che era una nenia,
il vetro appannato sugli occhi vivi
e le gocce eran come sudore,
sudore freddo lungo la schiena
che si contorce come una vite.
La pioggia suonava i vetri
con persistente regolarità,
l’albero fratto in tutte le gocce
ed i rami eran braccia in preghiera,
braccia secche dal duro lavoro
che bestemmiano il vano andare.
La pioggia picchiava i tetti
rimbalzando nel crepitio,
le grondaie sputavano colme
sulle pozzanghere senza piú specchio,
lo specchio di fango che inchioda
ogni piede che immerge il suo passo.
XXXV
Sonetto della rimembranza
Per Mila
E tua sorella suona ancora il piano
e tuo nipote rincorre i tuoi passi
nella casa dove ho lasciato te
e il palpito ansioso del tempo andato.
E tu per le stanze ogni giorno vivi
quel sogno che condividemmo e ancora
come un martello il chiodo mi tempesta
l’anima, il cuore, il petto, tutti i giorni.
Senz’altro t’avrà sorpreso incontrarmi
negli angoli di memoria, fiutando
persino l’atmosfera che avvolgeva.
Forse riderai se ti dico
che subito cosí ora m’accade,
mentre ti penso, e chissà se lo sai.