Barbara Carle è poeta, traduttore, e critico. La sua tesi di dottorato alla Columbia University esplorava i rapporti intertestuali tra Ungaretti e Valéry (1988). Autrice di tre libri di poesia bilingue: Don’t Waste My Beauty, Non guastare la mia bellezza, Caramanica, 2006, New Life Nuova vita, Gradiva, 2006 e Tangible Remains Toccare quello che resta, Ghenomena, 2009, e di un nuovo libro di prose e poesie, Sulle orme di Circe, Ghenomena, 2016, ha tradotto anche vari autori italiani contemporanei, Domenico Adriano (Bambina mattina, in inglese e francese Ghenomena 2013), Domenico Cipriano (November, Gradiva 2015), Rodolfo Di Biasio, Other Contingencies Caramanica/Gradiva 2002 e Patmos in inglese e francese, Ghenomena 2013), Tommaso Lisi (Liturgia familiare, Family Liturgy, Edizioni Il Labirinto, 2015) Gianfranco Palmery (Garden of Delights, Gradiva, 2010). Ha tradotto vari poeti contemporanei e classici per diverse riviste, Dante, Petrarca, Stampa, Scotto, Valesio, Zinna ed altri. Traduce anche dall’inglese all’italiano (Marianne Moore, Rachel Hadas, T.S. Eliot) e ha scritto numerosi interventi su poeti italiani contemporanei e sulla traduzione. Le sue poesie sono apparse su varie antologie in italiano e inglese. È docente d’italianistica alla California State University di Sacramento ed attualmente sta lavorando su un’antologia trilingue con Curtis Dean Smith dal cinese classico all’inglese e all’italiano per La vita felice di Milano.
(Foto di Dino Ignani)
Don’t Waste My Beauty Non guastare la mia bellezza, Caramanica, 2006.
26
Il colori parlano la lingua della luce
e noi sentiamo per ombre
non per parole o segni.
Tra il rosa rovente petalo e me stessa
il nulla.
*
Dai fiato di oceano al mio sentire
misura la vasta proporzione dell’assenza
fatti prestare la brezza per raggiungermi.
Spacca schiuma lattea sulle rocce brune,
il bianco getto, il puro lampo
nell’aria, nella roccia, in me.
*
Durante la mia adolescenza nel Bengala
imparai che i karaits erano serpenti
dal veleno mortale lunghi quattro pollici,
le lingue forcute li distinguevano dai vermi.
Bruni, umidi, a mucchi brulicavano a terra come una pubescenza
splendevano accanto al lago in un formicolio sbriciolavano humus.
L’adolescenza americana volse la mia memoria dei kraits
in quel profondo con cui il Bengala
si nutrì di me rodendo.
Si scagliarono in me con la loro umida nebbia
scivolarono in me lungo il flusso degli occhi
balzarono nello specchio per ritrovarmi in un baleno.
*
Lo straccio che porta con tanta evidenza
il suo sporco è per te. Un così opaco
comportamento parla la lingua immonda
della verità. Le macchie di caffè, l’odore
stantio dicono che qualcosa
di indelebile è avvenuto.
I gesti e le parole che non puoi
disfare non svaniscono, ma diventano
vecchi anneriscono iniziano a marcire.
Ora tu puoi vedere e sentire questi
cliché sudici, il loro tanfo
disgustoso. Il panno ormai logoro
ha perso la sua forma, è rovinato.
Ma non respingere
le croste di sangue e polvere
e piombo che restano lì
a capo chino perché non sanno andar via.
Lascialo un po’ sotto la pioggia, torci
poi freschezza dal vecchio canovaccio.
Tangible Remains Toccare quello che resta, Ghenomena, 2009.
1.
Al superstite Achille il compito
narrativo di incarnare i miti della grazia –
fabbricati coi dipinti gli scontri
omerici figurano sulle curve.
Rialzando gli scudi questi guerrieri
accettarono la geometria della morte.
4.
Sotto le palme bianche e nere
alcune persone contemplano il Pacifico
mentre due ragazzini
sono in piedi davanti al lungomare.
Quello di sei anni protegge
il fratellino di tre anni col braccio.
I loro costumi da bagno hanno le canotte a strisce.
Il maggiore non sa quello che l'aspetta
che andrà all'università, in guerra, si sposerà
viaggerà nel mondo per tanti anni
poi ritornerà a questa sabbia e morirà.
Sullo scaffale davanti alla fotografia
ci sono tante vere conchiglie
che la fanno vivere.
Più tardi, le sue vaste abitudini d'azzurro
lo renderanno claustrofobico.
Anche se soffrirà mentre muore
l'oceano nei suoi occhi sorriderà.
Il racconto del bambino sulla spiaggia
è terminato. Sotto le palme bianche e nere
alcune persone contemplano il Pacifico
mentre due ragazzini
si fermano sulla sabbia davanti al lungomare.
Il maggiore capisce: tornerà all'oceano.
41.
Scelsi un nome di fuoco, una frusta che schiocca
foneticamente: Shakti. Tigre da salotto ostenta
occhi blu viola. Non si trova luogo abbastanza
immacolato per quelle zampette graziose. Si muove
silenziosamente su lunghe gambe tranne il clicchettio
degli artigli sul pavimento di legno.
Caldi toni marrone e beige si fondono
in sinuose linee egizie. Caccia la sua preda
con feroce eleganza lentamente prendendosi tutto il tempo
per disporre la fluttuante coda. I suoi baffi suggeriscono
la saggezza. Il suo sguardo indaco colpisce brillantemente.
Sembra deridere il nostro umano balbettare
con le orecchie che tremano appena.
Mi sveglia con un dolce colpetto contro il mio naso
contro il mio ciglio, cautamente mi preme.
Mi lecca ondeggiando la sua ruvida lingua assetata
di sale. Mi annusa ed aspetta.
49.
(Hommage à la mer en souvenir d'un père mort)
Accidentate le lettere sul pezzetto di carta
cominciano con la doppia V.
Quella prima V sembra una T
usurata senza croce, mentre la seconda
assomiglia a una U, il tuo TU
accasciato in un IU, IO, mentre
continuano le tracce con la A
quasi un arco con dentro una panchina
utile alla T completata questa volta
accanto alla E ricurva senza capo
accedono tutte alla R finale
centinata la sua colonna
quietato il suo slancio
umorale il suo dorso piegato
accartocciata iniziale
del tuo nome: Robert
Dopo aver pazientemente ripetuto
“water”, hai scritto “water”
sul pezzetto di carta.
I tuoi occhi turchesi
si sono illuminati
quando mi hanno vista capire.
In clinica
L’acqua non è molto naturale.
Le poche gocce che hai bevuto
ti hanno tolto il respiro.
Voci dalla Northerner, 1860 (Journal of Italian Translation, 152-172, vol. IX 1& 2, 2014)
a LC
I
Mi ricordo un’acqua come crema
per cui non servivano rastrelliere
sulle tavole per tenere i piatti…
Il sole dispiegava una distesa
di scintillanti riflessi, il mare
mormorava una sua cantilena
tenera. Scorgevamo le scogliere
brune e rosa del capo Mendocino.
Vedevamo i pellicani sfiorare
le onde pomeridiane, auguri
premonitori i gabbiani le sterne,
anche i cormorani, si bisticciavano
irrequieti volando verso riva.
I passeggeri tutti riposavano
in cabina mentre il Capitano Dall
e il primo ufficiale French si trovavano
sul ponte. D’improvviso si avvertì
lo scafo appena grattare contro
una cosa sommersa resistente,
un urto così delicato come
nulla che nessuno avrebbe potuto
accorgersene e la nave proseguì
serenamente a dodici nodi.
II
A prua esploravo l’orizzonte.
Le balene sfiatavano fontane.
Guardai a tribordo, poi a poppa vidi
lo scoglio di Blunt, la schiena or ora
sfiorata si alzava a seconda
l’onda mentre noi andavamo a vele
spiegate con le grandi ruote a pale
laterali girando in sincronia.
Il primo ufficiale tornò con sangue
freddo dettagliò l’infausta notizia
mentre il capitano sempre composto
solennemente ascoltava. La nave
affondava rapidamente, le assi
della chiglia lignea erano squarciate
dalla roccia. Il capitano convocò
tutti gli uomini dando l’ordine
di aiutare a far funzionare le pompe
sottocoperta. Poco dopo alcuni
ritornarono sul ponte dicendo
che il livello dell’acqua era arrivato
a quindici centimetri, saliva
rapidamente vincendo le pompe.
I fuochi della caldaia sarebbero
morti entro due passaggi di clessidra.
III
Prima le donne e i bambini furono
adunati nel salotto d’attesa.
La nave faceva partire colpi
di cannone ogni mezz’ora. I segnali
di emergenza tuonavano lungo
la costa. Il vascello era a tre miglia
dalla riva. Il Dall la governò
verso la foce del fiume, puntando
di giungere quanto fosse possibile
lungo la spiaggia, per salvare tutti
a bordo. Il tempo era mutato.
Un vento si alzava da sud ovest,
il mare si svegliava con crescente
furore. I contorni della riva
si affievolivano in una sagoma
di grigio, rosa e ocra, morente
crepuscolo del pacifico del nord.
IV
Quando essa urtò una barra di sabbia
si gettò l’àncora. La Northerner non
sarebbe arrivata a nessun porto.
Si stava a un miglio dalla spiaggia
che non si scorgeva più. Si innalzavano
le onde più in alto, il vento soffiava
la pioggia cominciava a cadere,
le raffiche si misero a fischiare,
un’ombra avvolse la nave che lottava
tra braccia mortali. Un disumano
freddo ci flagellò. Non v’era tempo
di abbassare la boma della randa
né la vela di prora. Il fumaiolo
assorbiva acqua, invece di espellere
il vapore. La nave barcollava,
tremava, percossa selvaggiamente
dall’oceano scatenato. Gli alberi
incominciavano a scricchiolare
pericolosi. I ponti di legno
si schiantavano. I flutti salivano
e il capitano ordinò di spostare
le lance di salvataggio a sinistra,
la più spaziosa avrebbe portato
le donne e i bambini a riva sotto
il comando dell’ufficiale French.
Pur tuttavia non v’era nessun panico.
V
Quasi tutti obbedivano con stoico
ritegno. Viaggiatori provati, erano
superstiti di peggiori disgrazie
sul sentiero dell’Oregon, tranne una,
la signorina Gregg volle restare
col fratello. Dopo una discussione
accorata e sofferta, il capitano
fu irremovibile. Imponeva
l’usanza: prima le donne e i bambini,
dopo, gli uomini anziani, poi gli altri,
infine l’equipaggio. Ma con l’aiuto
della smorta luce crepuscolare
la signorina riuscì a evitare
la partenza col primo ufficiale.
VI
La prima lancia raggiunse la riva.
A quel punto non si vedeva oltre
dieci metri. La tempesta e il mare
cospiravano in una crescente furia.
La fitta pioggia scrosciava dal cielo
infinito, il fortunale urlava,
degli implacabili blocchi d’acqua
cozzavano la nave, sbranandola
piano piano. Altre barche partirono.
L’unica che ritornò era del primo
ufficiale. Mentre si avvicinava
sentii il capitano gridare: Signor
French, guardi! Un vortice a babordo!
Attenti! Vi tirerà giù! Ma troppo
tardi. La lancia si rovesciò. Il gorgo
risucchiò il primo ufficiale con due
marinai. Nessuno provava ancora.
Il capitano dovette trovare
un ultimo piano di fuga. Chiese
all’ingegnere O’Neil se era d’accordo
per portare l’ultima barca a riva
con un cavo di salvataggio. L’uomo
intrepido rispose che avrebbe
sfidato quel perfido oceano.
Navigò la sua furia e pilotò
la lancia fino alla spiaggia. Il cavo
fu attaccato. Il capitano incitava
gli ultimi passeggeri. Aggrappatevi
al cavo e seguitelo a riva!
VII
In quell’ora cupa sentimmo un urlo
strano, un nitrire, dei tonfi forti
attraverso i piovaschi, un marinaio
ribelle era riuscito con lusinghe
a esortare un cavallo dalla stalla.
Si era aggrappato al largo collo
spronandolo con pezzi di pagliolo.
La povera bestia si sollevò
e saltò col marinaio attaccato
a essa. Malgrado tutto, il cavallo
per istinto nuotò verso la riva.
Come nuotava meglio con maggiore
forza di tutti noi! L’ammutinato
si rivelò furbo. Si seppe il giorno
dopo che l’uomo arrivò alla riva
infine mollando la presa sulla
creatura impaurita. Essa fuggì
a pieno galoppo in preda al panico.
Per poco non investì i superstiti
esausti e ansanti sulla spiaggia.
VIII
A bordo gli uomini provavano
il cavo di salvataggio. Uno dopo
l’altro erano spazzati via d’un tratto
o allentavano prima di fare pochi
metri. Incessanti frangenti
rompevano la loro presa. Verso
le due di mattina v’erano solo
sei passeggeri e il capitano.
La signorina Gregg e il fratello
si erano legati alla ruota
laterale sperando di durare
oltre la bufera. Erano pazzi?
Chi osa dirlo? Più nessuno voleva
tentare il cavo da solo. Insistevano
perché il capitano Dall provasse
prima. Lui finalmente acconsentì
restio all’abbandono della nave
mentre la poppa si spezzava a ogni
percossa di acqua vento e pioggia.
Sganciato, travolto, sbattuto come
tutti gli altri, però da autentico
marinaio il capitano Dall resse
la bastonata. Atterrava quasi
morto, ansava sulla fredda sabbia
quando un enorme flutto tentò
di riportarlo al largo. Quelli rimasti
aggrappati alla prua, che si staccò
e galleggiò a riva, furono tutti
salvati, davvero cosa bizzarra.
IX
All’alba l’oceano assomigliava
a un assassino placato, vantava
cadaveri, rottami, il corpo nudo
della povera Gregg era appeso
alla ruota, vestito dai suoi lunghi
capelli color di grano. Accanto
alla pelle raggelata, pendevano
tre cinghie svuotate di suo fratello.
Lei penzolava tutta sola. A bassa
marea mandarono una barca
a riprenderla. Infine la parvenza
dell’ostinata ritornò a terra.
X
Di me chiedete? Narratore interno?
O fantasma dall’agghiacciante storia?
La necrologia mi disse “barbiere
di colore”, fui spazzato via mentre
aspettavo il mio turno al cavo
di salvataggio. Nessuno ricordava
me, e sono venuto qui per questo
a ossessionare la misera riva
della spiaggia di Centerville, sperando
che qualcuno dirà della mia vita
realmente esistita. Un gentile
passeggero mi porgeva una mano.
Anche lui morì quella notte. Un certo
Oliver Meeker di Steilacoom, trenta-
due anni aveva. Mi trattava da pari
con quegli occhi grigi espressivi
e l’alta figura elegante. Un uomo
quieto stimava tutti benché
conoscesse la natura umana.
Era tra i primi a tentare il nefasto
cavo. Quando una torre ricurva
acquatica gli si schiantò addosso
semplicemente rallentò la presa.
Credo resistette quanto potesse.
Nessuno lo vide mai più. Non era
tra i corpi che il mare consegnò
alla spiaggia il giorno dopo. I cadaveri
depredati venivano sepolti
da saccheggiatori, buone famiglie
pioniere arrivarono non appena
sentirono i colpi di cannone
urlare il nostro pericolo. Vennero
per aiutare e per mietere il bottino
dalla perdita di ogni vita, redditi,
creature, merci, mentre i soldati
mandati per proteggere il rottame
rivolgevano lo sguardo altrove.
XI
Mi aggrappavo al cavo, continuava
ad affondare, a tremare a girare
fino a quando non lo sentivo più.
Il momento che mi accorsi di aver
mollato pensai al barbiere appena
spazzato via, come avrebbe tagliato
i capelli a nessuno per sempre.
Pensai a mia moglie a mio figlio, a mio
padre, a mio fratello che mi aspettavano
a Steilacoom. Pensai a tutta la merce
persa in mare, al negozio non pieno
che ormai non contava più. Spinto via
dalla riva, mi arrendevo prima
della morte, insieme al fratellino
annegato attraversando il sentiero
dell’Oregon. Ricordai una madre
morta. Diedi loro una gomitata.
Congiunsi tutta la vita in mente.
Non trovavo la forza di tuffarmi
sotto ogni onda mostruosa. Non sentivo
più il freddo. L’oceano era sparso
del carico navale, fornitura
per il nostro negozio, vetro, legno
e assi, sedie, scrivanie, vele, acciaio,
le porte si sbattevano nei flutti
martellanti. Ogni pagina di vita
si disfaceva nei liquidi rombi
che sicuramente mi annientavano.
Mi sapevo rimorchiato al largo,
la corrente di ritorno era più forte
della tempesta. Svenivo e cadevo
giù mentre i miei sensi si oscuravano
fino a quando nessun suono, né fondo
né buio regnò intorno a me.
XII
Se scali quelle ripide scogliere,
color di ruggine che si sgretolano
in turbini di schiuma e terra, alla spiaggia
di Centerville troverai le due croci.
Commemorano il naufragio invernale
nel milleottocentosessanta della
Northerner. La croce caduta, piano
scende giù, fu eretta negli anni venti,
un’altra più recente si erge alla cima
che continua a restringersi. Leggi
la lapide attraverso il tempo insieme
agli spazi del perduto pacifico,
il sottofondo immenso. La costa
è deserta. La spiaggia è cambiata
poco in centocinquant’anni. Ogni
tanto la cassa a fuoco della nave sale
con la bassa marea. Vi si librano
le anime non sepolte, i camerieri,
i cuochi, l’equipaggio dimenticato,
e me, i silenziosi passeggeri
di acqua, il fratello della signorina
Gregg, noi cerchiamo ancora un posto
dentro un sepolcro accogliente, nomi
ben incisi e ancora leggibili.*
*Questa poesia è stata ispirata da un avvenimento storico e dal luogo dove avvenne. Tuttavia non pretende di raccontare ogni aspetto del naufragio né vuole essere un racconto oggettivo. Comunque il testo è anche frutto di lunghe ricerche storiche e di letture dei giornali d’epoca di gennaio e febbraio del 1860, come Daily Alta California, Pioneer e Democrat, giornali regionali, Humboldt Times, Ferndale Enterprise dove una serie di articoli di Andrew M Genzoli apparivano negli anni ’40 e ’50. Il libro di Don B. Marshall California Shipwrecks, 1978 è stato utile. Vorrei ringraziare Ann Roberts del museo di Ferndale nella contea di Humboldt nella California del nord per avermi permesso di consultare gli archivi del museo. Infine sono grata a Dennis Larsen, storico e autore di Slick as a Mitten: Ezra Meeker’s Klondike Enterprise, 2009, per i dettagli sulle vite dei fratelli Meeker dello stato di Washington.
Sulle orme di Circe, Ghenomena, 2016
3. Le pietre di Santorini (Θήρα)
a M Cristina D B
Atlantide o Akrotiri — inconcesso
trascendere questa incantevole
leggenda — ancora viva nelle scimmie
azzurre degli affreschi o nella tua
Nea Kameni, terra di pietra nera
trachite rilucente paesaggio
iridescente miniera vulcanica
disegno storia di rocce effusive —
eruzione o scorie della prima dea?
5. Essere a Ventosa
Essere a Ventosa è un evento
di aria e di respiro, come entrare
nel soffio della poesia del tempo
che posatamente sa narrare
i combattimenti aspri, lo stento
l’orrore di chi rifiuta di darsi
alla morte di vedersi spento
quando l’uomo sa solo ammazzarsi.
Essere a Ventosa è diventare
come il vento sapere superarsi,
chiarirsi e ritornare nel cielo.
Significa ascoltare il mare
e la sua cantilena di catarsi
amare la terra e togliersi il velo.
2. La chiave della parola ἀρχή
Gli archi del Cisternone mi aprono
la chiave della parola ἀρχή -- di essa
sono maestose traduzioni arche-
ologiche, anelli delle origini
e dell’autorità. Si riposano
sui pilastri raddolciti dal ripetersi
delle curve degli archi e delle
volte creando linee armoniose
e fluide nelle navate della
basilica sommersa riversata
per la sua chiara bas…leia di acqua.