Paolo Febbraro

Paolo Febbraro, nato a Roma nel 1965, è poeta e saggista. Lavora come insegnante nelle scuole medie superiori. Esordisce con la silloge Disse la voce, compresa nel volume collettivo Poesia contemporanea. Quarto quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Guerini e associati 1993). Il volume di versi Il secondo fine (Marcos y Marcos 1999) si aggiudica il premio Mondello per l’Opera prima. Seguono l’operetta mista di versi e prosa Il Diario di Kaspar Hauser (L’Obliquo 2003), Il bene materiale (Scheiwiller 2008) e la plaquette Deposizione (Lietocolle 2010), che anticipa in parte il nuovo libro poetico Fuori per l’inverno (Nottetempo 2014). Suoi versi sono stati tradotti in inglese, francese e spagnolo.
Come saggista, ha curato la raccolta dei Poeti italiani della «Voce» (Marcos y Marcos 1998) e un’ampia antologia della Critica militante (Istituto Poligrafico dello Stato 2001). È stato redattore (dal 1995) e poi curatore (dal 2006) dell’Annuario critico di Poesia fondato da Giorgio Manacorda, il cui ultimo volume è uscito nel 2012. Ha pubblicato le monografie La tradizione di Palazzeschi (Gaffi 2007), Saba, Umberto (Gaffi 2008) e Primo Levi e i totem della poesia (Zona Franca 2013). L’opera saggistica più rilevante è tuttavia L’idiota. Una storia letteraria (Le Lettere 2011), un percorso critico che individua la figura dell’estraneo in diversi capolavori della tradizione occidentale. Sempre nel 2011 ha pubblicato il breve e-book Perché leggere la poesia a scuola (Garamond). È prevista per il gennaio 2015 la pubblicazione presso Fazi del volume intitolato Solchi nella Storia. Leggere Seamus Heaney.
A lungo collaboratore del «Manifesto», si occupa di poesia sulla «Domenica» del «Sole 24 ore».

(disse la voce)

 

Disse la voce:
«Sono colui che tolse
il senno a Kant
e gli occhi a Omero.
Fui io che volli incerti
i tratti
al padre di Amleto,
son io la febbre irresponsabile
che colse Alessandro,
il sogno felice
che scatenò Attila
e lo sguardo traverso
che tradì Orfeo.
I piani di battaglia
sussurrai
al vincitore di Waterloo,
Leonardo tormentai
col più folle degli amori.
Con sfavillio di fuoco
persi nel buio
ad Alessandria
secoli di parole,
corsi
sulle trentatré lame
che vollero rosse e famose
le idi di marzo.
Per invidia ho operato
con fredda intelligenza.
Ora me ne vado
in un luogo né bianco né nero
al riparo da ogni profumo
e da ogni pensiero».
«Dèmone, vipera, serpe,
debole amante del nulla,
a te sia dato, infido,
l'irrevocabile oblio».
«Non chiamarmi diavolo,
uomo. Sono Dio».


Da Il secondo fine, Marcos y Marcos 1999, poi in Il bene materiale, Scheiwiller 2008

(non vi saranno altre voci)

 

«Non vi saranno altre voci.
Già sorge il sole e cancella
nell'aria i resti dell'incubo
che pure fu cena, parole e mani.
Altri giocheranno sulla rima
capovolta fra sepolcro e ascensione,
fra morte propria e sua resurrezione.
Voi liberatevi dalla salvezza.
Risorge a tempo il sole e vi cancella
con bianche dita l'aspra tenerezza».


Da Il secondo fine, Marcos y Marcos 1999, poi in Il bene materiale, Scheiwiller 2008

(e all'ultima porta)

 

E all'ultima porta,
al penultimo passo,
quando ancora il pensiero
se spunta ha un dove per ritornare,
un attimo prima che il cielo
si sveli per sempre o si copra
non lo daresti un seme
della tua eternità
per ritornarci sopra,
non cercheresti il fiato
per poche parole diminuite
tipo buongiorno quattro tre sì d'accordo mi
sentite?


Da Il secondo fine, Marcos y Marcos 1999, poi in Il bene materiale, Scheiwiller 2008

(buongiorno, mi dia tre etti)

 

«Buongiorno, mi dia tre etti del cadavere
di un manzo. Però mi raccomando, che sia
di quello che non ha sofferto andando
al macello, del più sciocco, fidente o
soprappensiero, cui l’ultimo muggito
non abbia striato la carne d’incubo
e maledizione contro la nostra biblica
autorità, e autorizzazione. Un bel vitello
con la nervatura non ustionata
dalla memoria d’un cancello.
Che stia bene col brodo leggero,
la frutta di stagione e l’aroma
del vino novello. Mi dia di quello».


Da Il bene materiale, Scheiwiller 2008

(prova a dormire)

 

Prova a dormire con chi ti solletica
o alle due di notte accende il sole:
così l’inverno mite con le piante
che dure in balcone tenevano i tempi
alla nostra riservatezza spoglia,
ai mesi di sospetto e controvoglia,
alla nostra retta dissipazione.
Guarda: reggono a stento
alla provocazione, tornano quasi
alla rissa. Alterco primaverile
che nella nera estate poi si fissa.


Da Il bene materiale, Scheiwiller 2008

(le giovani donne soffrono)

 

Le giovani donne soffrono perché i mariti
d’estate le amano, a sera, quando
più a lungo le guardano nude:
e loro, stanche e accese, li amano pure.
E sentono tendersi il ventre,
spossessarsi di loro, e danno il sangue
in perdite lunghe o in siringhe
sterili, per tradursi in numeri,
e si aprono a sonde che alle viscere
designano urgenze. E la prima
sera d’autunno, nell’istante
in cui il cielo cede e si sgrana
nero, si svegliano magre e arrochite
e il dolore attento le presidia
salendo dai fori che alle pance
giovani e bianche hanno tolto
vita e insidie. Sussurrano allora
mai più, ed è insieme
l’infanzia che hanno perso e non dato,
l’inverno estraneo che supereranno.


Da Il bene materiale, Scheiwiller 2008

I tempi morti

 

Finisce novembre e gli uccelli
portano alle tettoie stecchi
nudi, sminuzzano in volo i venti.
Col pane fresco in braccio due vecchi
teneri di fame e nostalgie pensano
ai propri vent’anni, ai denti.
Scorrono campi di cardi attorno
alla stazione suburbana; ritardi
si annunciano in alto ad alta voce; sulla
panchina, le gambe a croce, medita
il passeggero i suoi eterni torti.
Son questi – pensa – i tempi soliti,
i tempi morti.

Il patimento si aggiorna, banale
si sfoglia la pagina di cartavetro:
lo mormora l’acquirente del giornale
e vorrebbe tornare indietro. La Borsa
titoli cade, il mondo vale meno;
le vertebre del viaggiatore avvertono
sul sedile la restituzione del freno.
Studenti scendono in fretta, chiassosi
nella uniforme giovanile: fra storico
e vile è lo sguardo di due anziani
reduci del Novecento, fra le mani
due sorti. Più degli andati – si stringono –
verranno tempi morti.

Al finestrino accanto, c’è uno che vive,
nel vagone male scaldato, incide
sul foglio parole afone, prive
di socievolezza; solo, un po’ curvo,
scarta e intride, si prende il disturbo.
Come per musica annota
ciò che ha sentito più casualmente;
svuota i doveri del tempo libero,
il giardinaggio della mente, incastra
pensieri cari, termini corti.
Non pagherà la moneta dei vivi
– mormora – la cura dei tempi morti.


Da Il bene materiale, Scheiwiller 2008

Molto di marzo

 

Molto, di marzo, è diventato fiume.
La pioggia lo ha allevato il mese intero.
Lo dicevo – fra me – ieri sul ponte
e il Tevere convesso
covava il suo bitume
come la vena d’un mondo anziano.

Quella corrente spossa gli argini,
sorda e sfiancante li slaccia.
Crudele il sole ammetteva i contorni,
ma il liquido li annette senza faccia.
La fusoliera d’un gabbiano
porta la guerra all’aria:
cancella in volo come da un quaderno
il mondo liquefatto in cui va a caccia.


da Fuori per l’inverno, Nottetempo 2014

(ti prego, luccio, non abboccare)

 

Ti prego, luccio, non abboccare.
Scansa la mia esca con degnazione.
Un po’ d’astuzia, o di malinconia:
manda un segnale di evoluzione.

Se ho fame, fa’ che smagrisca ancora,
mandami all’aria, morto ed illuso;
e peggio ancora se l’insidia è sport,
accattonaggio di natura e d’uso.

L’amo conferma amore interessato,
la lenza è occulta pubblicità:
rimani onesto, l’acqua ti continua,
non farti appendere, solidarietà.


da Fuori per l’inverno, Nottetempo 2014

L’ insonne

 

L’insonne è chi non vuole
farsi decifrare dalla notte.
È l’ufficiale di turno
che decide le rotte
perché l’alternativa è il mare.

L’insonne accende
la lampada sul comodino,
fa l’imputato in questura,
risponde alle domande
per evitare la tortura.

L’insonne non sbadiglia,
è fatto certo dal proprio errore.
Per lui la notte diventa una platea,
la partoriente vuota.
Lo libera aprendo il sipario
e bianca retrocede, ignota.


da Fuori per l’inverno, Nottetempo 2014

I classici

 

Butterati dalle ustioni, fra i ponteggi
dei restauratori i classici guardano
a noi con l’occhio sazio del rapace
che ci riduce a istanti. Non sopportano

luci artificiali: notte sia notte,
nubi a plotoni senza temporali.
Stringono il cuore, ma come lo possono
fare le mani tramutate in ali.

Nel nostro andare noi li perdoniamo,
spettri educati, mutili e ideali.
Se li studiamo, ancora ci minacciano.
Ma quale polvere. Quali scaffali.


da Fuori per l’inverno, Nottetempo 2014