Giovanni Parrini è nato a Firenze, dove vive e lavora. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Nel viaggio (Lietocolle, Faloppio, 2006, prefazione di Neuro Bonifazi); Tra segni e sogni (Manni, Lecce, 2006, prefazione di Maurizio Cucchi); Nell’oltre delle cose (Interlinea, Novara, 2011, prefazione di Giovanna Ioli); Valichi (Moretti&Vitali, Bergamo, 2015, prefazione di Giancarlo Pontiggia); Le misure del cielo, in rivista Poesia, n° 284 – a cura di M.G. Calandrone (Crocetti Editore, Milano).
Quindici poesie sono presenti sull’Almanacco dello Specchio 2010/2011 (Mondadori). Inoltre, è stato pubblicato in riviste, fra le quali Atelier, Bollettino ’900 (a cura del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna), Specchio (mensile del quotidiano La Stampa), oltre che essere presente in vari siti web.
È uno dei collaboratori della rivista di arte e cultura Caffè Michelangiolo (Polistampa, Firenze) dove pubblica saggi su importanti poeti del ‘900 europeo, con particolare riferimento a quelli inglesi e irlandesi. Riconoscimenti: Poesie inedite: premi Casentino 2009 e Firenze 2004. Nell’oltre delle cose: Premio Mario Luzi 2011; finalista al premio “Il Ceppo” Pistoia 2013. Valichi: Premio Giuria-Viareggio 2015; premio Pisa 2015
Ora
scegliere di resistere
non arrendermi così non ancora
cedendo all’onda media del week-end
risacca collettiva
30 all’ora a singhiozzo verso casa
quasi niente cesure tra chi segue e precede
lapsus tra cofani e bauliere
però guardando meglio
è il tramonto che presta ai fari il rosso
è il sole sghembo a fare con la polvere oro sopra i lunotti.
Non poco
avere l’occasione
vedere altro
questa fila che è uno stelo fragile di storie
come foglie e semi
che non sanno che altezze li sbaragliano
tra non molto
quale terra li aspetta
in questi amari e magnifici giri
che la bellezza fa.
DA “VALICHI” (Moretti&Vitali, 2015 – pref. G. Pontiggia)
Avevo molto spesso un pensiero. Dicevo, forse è per via del lavoro. Anni dopo anni su cantieri enormi, e quando bucavamo la montagna, guardando nella polvere, pensavo che quando cade l’ultimo diaframma succede al limite dello sconforto, e ti pare che il ferro della talpa pure lui sia sfinito. Ma in un soprassalto di follia, o perché ognuno ha dentro l’infinito, ti dici che non tutto può finire lì, nell’avanzare cupo ora per ora, e poi un crollo finale. Non sai
perché ti ritrovi a sognare una via invisibile, parallela e vicina. Eravamo agli ultimi duecento metri, gneiss e calcescisti, distanza piena d’intimo silenzio, di ricordi e sudore. Duecento metri accanto gli uni agli altri e quella montagna col suo corpo umido, fitto di fibre. Io sono uno qualunque, uno dei tanti. Di me, di noi, mi chiedo
cosa resterà in questo buio violato: forse la pena, oltre che nostra, quella incomprensibile che sento del monte agonizzante, povero come noi. Mi fermavo ogni tanto – un mezzo lavativo, dicevano – guardando quel tormento di materia, che sembrava sognasse voli e azzurro, e soffrendo spedisse tanta vita in superficie, con una forza timida, settecento ottocento metri sopra, dove tutto scorreva inconsapevole. Tra poco ci sarebbe stata luce improvvisa, un boato, qualche sorriso piegato. Poi avremmo ricominciato altrove, a tracciare altre strade, diverse e tutte eguali, che a volte dentro il sonno si confondono, si sommano, ne fanno una soltanto, che dondola, va su. Va verso l’alto. Dove non lo so.
DA “VALICHI” (Moretti&Vitali, 2015 – pref. G. Pontiggia)
Trita epopea di un giorno estivo
il calore m’assorbe i contorni del corpo
sto quasi scomparendo
ma resisto
insufficiente pure nei dubbi.
Aspetterò la notte
una di quelle vacanziere, sai, accanto alla piscina
fra gli ultimi volteggi inamidati dei camerieri
fra tavolini e sedie
quando sarebbe ovvio stare al gioco banale delle parti
minime senza motivo
se non fosse che le stelle si lasciano toccare
raccogliere. È questione di capovolgimenti
provvide distonie se poi t’accorgi
che un’esistenza intera basta appena per essere bambini
capaci di chiamarle una per una
farle sporgere in qua
come se fosse vero l’impossibile
che accade a non pensarci
come quando balena l’infinito nel poco che ci tocca.
DA “VALICHI” (Moretti&Vitali, 2015 – pref. G. Pontiggia)
Certo, qualche motivo ora mi resta,
però non chiaro, che farà spostare
dubbi come macigni, per andare,
a forza, ancora avanti con la desta
ragione che non teme e mai s’arresta,
non so poi quanto valida a tentare
sempre un senso all’intrigo del da fare,
oppure illusa, se una risposta
forse è racchiusa dentro il suo minuscolo
grumo di gangli, più che in qualche arcano
volere impervio, oscuro – forse un simbolo –
cui, ripensando, poi ci viene scrupolo,
vedendo che laddove stava pieno
un segno, se ci arrivi, è un lume tremulo.
DA “VALICHI” (Moretti&Vitali, 2015 – pref. G. Pontiggia)
Niente di nuovo alla TV
logori palinsesti
nostre labili teste di comparse
prossime alla ribalta (e tra parentesi all’oblio
tra parentesi: se no fa male)
rimuginando una ragione apotropaica
e cascare in quel sonno stordito da zapping
domani tanto arriva
presto
lento
anzi una via di mezzo
per queste scelte tutte nostre
o d’un fato invaghito a starci accanto
lui anche soccombente
messo piede quaggiù. Pensieri e news
e cappuccino e
pioggia sgrondante dagli ombrelli in fila alla fermata
strappo pigro di nubi
poi che strano
cede il minuto ottuso
le gocce allora fanno rime celesti
i visi nel riflesso della vetrina c’e qualcosa che li ama
tutti eguali. Non so. È una mattina.
DA “VALICHI” (Moretti&Vitali, 2015 – pref. G. Pontiggia)
Tu li avrai visti i vecchi
quelli appena difesi da un vestito malmesso
con il carrello mezzo vuoto
che se li trasporta.
Li avrai visti
che se l’inonda il gelo razionale del banco frigo
i loro tratti sono cieli
qualcosa d’incredibilmente semplice e intatto
nello stare indecisi
come stranieri del dove e del quando
in mezzo agli scaffali
chiedendo di un prodotto
quello che non c’è mai manca da mesi
o a ripetere fra i denti cosa riporta la confezione
aggrappati alla loro stessa voce
per non sparire
che poi capita a tutti
questione di pochi anni messi su dall’orologio enorme sopra le casse
con quegli scatti neri di secondi
spilli che fanno un po’ male
nella fila lentissima
ponte di pochi metri poche mani fra le età.
DA “VALICHI” (Moretti&Vitali, 2015 – pref. G. Pontiggia)
La gondola motrice e l’ala luccicano
57 gradi sottozero
toccati nell’anabasi
mangiando precotto nelle vaschette
sperando che non entri l’accidente nelle turbine
se ne stia buono
resti nel suo dominio ancestrale
lontano dalla rotta superstiziosa hi-tech
un graffio nel cobalto
e giù da qualche parte un punto verde sul radar
fino a fine del turno
da passare in consegna ad altri e altri
che seguono la cifra in cui si va procedendo
piegando verso il nero superato dal sonno
che arriva prima dove stanno aspettando
che questa traccia si rifaccia respiro
nodo di abbracci
intanto che laggiù starà aggiornandosi il tabellone orario
e quassù all’oblò viene e svanisce un amato sembiante.
DA “VALICHI” (Moretti&Vitali, 2015 – pref. G. Pontiggia)
C’è solo pietre,
aspri ciuffi di gramigna,
al termine di arrivi e di partenze
di stazioni assorbite nella scia di cartacce e rumore,
c’è solamente sabbia e pigrizia di gatti,
alla fine di colli e di pianure,
di paesi colati muti in rivoli
al finestrino, spenti nei tragitti
socchiusi fra le palpebre e riaccesi
improvvisi alle soste:
resta appena un grigiore premente
nella bica di sassi,
dove il binario e il daffare muoiono.
DA “NELL’OLTRE DELLE COSE” (Interlinea, 2011 – pref. G. Ioli)
Mattina, un’altra, uguale:
gomma ferro iniettori
benzene radio news. Mattina, un’altra
fuoco urla clave e avanti,
tutta la strada che si deve aprire,
la nitida coscienza,
tanto dono sublime,
che ci sostiene sulla via e schiarisce
la modesta visuale,
il vitale perché,
di mammut di semafori di formule,
e oltre il tetro spigolo del vero
mostra l’ultimo nodo
che, se si stringe,
non si sa se si allenta.
DA “NELL’OLTRE DELLE COSE” (Interlinea, 2011 – pref. G. Ioli)
Nella prima mattina, il paesaggio
riconosceva le mani piccine,
guidate dal padre,
che avevano avverato, dopo il sogno puerile,
le colline declivi fino all’umida piana di compensato,
la galleria che inghiottiva i convogli,
all’angolo del salotto,
gli abeti scuri guardiani del deposito,
alla parete opposta,
coi sei binari usciti dalla solita scatola d’anni addietro,
e innevati col talco.
Dalla tenda s’alzava un’alba morbida,
fragrante di caffè,
e i paesetti uscivano dal buio della stanza.
Il regalo più bello
fu la stazione in mezzo alla campagna,
un marciapiede solo, di cartone pressato e Vinavil.
«Papà, salgono e scendono poche persone, qui, vero?»
La fermata era breve... salivano
i soliti soggetti,
addormentandosi nell’automotrice,
che conosceva l’accelerazione,
l’abbrivio imposto delicatamente dalla sua mano,
lungo il rettilineo,
un filo argenteo teso fino ai monti,
quelli di carta, ripensava lui, sorridendo,
disposti proprio là, nell’angolo del salotto,
dove il treno imbucava la galleria
e ne sarebbe uscito,
per perdersi lontano.
DA “NELL’OLTRE DELLE COSE” (Interlinea, 2011 – pref. G. Ioli)