Enrico Meloni

Nato a Roma, si è laureato in Storia Moderna e in Documentazione presso la Facoltà di Lettere dell’università “La Sapienza” di Roma, dove ha conseguito anche il Dottorato di ricerca in Italianistica. Ha lavorato nel settore delle biblioteche e, dopo aver insegnato lettere per diversi anni, attualmente è docente di storia e filosofia nei licei. Ha partecipato ad alcuni convegni come relatore e a numerosi reading poetici.


Ha pubblicato racconti, poesie, saggi letterari e storici in antologie, riviste cartacee e sul web. Sono usciti in volume: il romanzo TrePadri (2002), la silloge poetica Arca allo sbando? (2004), il poemetto dialettale Er davenì (2007), il romanzo Quando gli squali mangiano vento (2012), la raccolta di poesie Fratelli mia (2015), il saggio Del nostro caos e della solitudine (2017) sulla memoria letteraria dell’internamento dei militari italiani nei lager nazisti, la nuova edizione di TrePadri (2020).

Mentiva al sole

 

Mentiva al sole
di uno spodestato aprile
parole del sottobosco esorbitavano
da ogni affanno, ogni declino di resa.

Cadeva la libertà altrove
nel giorno della Liberazione
crollava la fiducia nella realtà
nell’epoca della post-verità.

Ma i suoi occhi brillavano bugie
da molto prima, con soavità.
Era maggio quando tre spie
lo sorpresero a mentire
nell’ aura rea della sincerità.

Quartieri di metropoli bugiardi

 

Quartieri di metropoli bugiardi
centrifugati da pedate in fez
criticità nell’urto di giardini
affogati dall’afa nella foga
diversamente invasa dallo stress.

Papà che bussi ancora

 

Papà che bussi ancora
inatteso inascoltato
nelle mie stanchezze
(le stesse tue che non riconoscevo).
La tua presenza giunge per proteggermi
ma non mi sprona al vivere
felice che non potevi credere.

Accarezzo le curve del silenzio
immutato nella meta del tempo
e nei dubbi mi avventuro in altre
radici aspre di felicità.


Se fa na certa

 

Se fa na certa, fella, nun lassamo
sgattajolà via er tempo ne le storte
che ste vitacce ’nchiodeno smoggose
appennolone ner vero da fiscion.
Appetto a mme ce so ggiornate ciche
mica ppiù oceani deis de fanellezza
che mmai dall’arba nun vedemio notte.
A prescia, dichi, sgrava li cecati
ma er daje a rimannà stira le zzampe.

 

Si fa tardi

Si fa tardi, fratello, non lasciamo / sgattaiolare il tempo nelle vie tortuose / che inchiodano queste vitacce di smog / sospese nella realtà da fiction. / Davanti a me vedo giorni fuggevoli / non più le giornate oceaniche dell’infanzia / quando dall’alba non veniva mai notte. / La gatta frettolosa, dici, genera figli ciechi / ma il continuo rinviare tira le cuoia senza compimento.

Indove un zole

                                                     (giugno 2009)

 

Magnafusaje flesciati de sòle
se capano l’inzogni
ne le maje griffatelle
nei friccichi de stelle
framezzo ar gasse
ne li spotte de rettilevisione

gricciori avanti l’arbe
montarozzi de carce
libbidini de nebbie marchettare
li luccicori der chissandovai

indove un zole scalla senza calle
a tutta callara.

 

Dove un sole

Mangialupini abbagliati da inganni, / scelgono i sogni / nelle magliette griffate / nei brividi di stelle / immersi nello smog / negli spot televisivi // brividi che precedono le albe / cumuli di calce / libidini di nebbie marchettare / i luccicori dell’ignoto andare // dove un sole riscalda senza menzogne / al massimo dell’intensità.


Il termine magnafusaje è venuto alla luce da sé, pensando a quegli extracomunitari che giungono in Italia con una certa dose di ingenuità, figlia della loro radici. Ho accostato la loro purezza alla mia innocenza di bambino, quando andavo nelle ville di Roma con i miei, che dal fusajaro mi compravano un cartoccio di lupini: una felicità a basso costo, ecologica, senza sovrastrutture o condizionamenti consumistici. Quanto a rettilevisione, lascio al Lettore piena autonomia interpretativa.


Fratelli mia

 

Fratelli mia, se danno le parole
stille d’aria nun ze ponno acchiappà
raspa la gola secca, e ttanto dole
che ste voce se viengheno a asciuttà.

Chi cce misura er bene appetto ar male?
Cqua la canaja cor quacquaracquà
s’ammisticò ar più lliggio scritturale
che commanni, eseguisce e… mmappalà!

S’aribbartò er valore: bbona ggente
perzeguitata pe ll’infamità.
Ma ssi un cantón dell’omo è st’accidente

a ppenzacce fenischi a scapoccià:
momoria sì, ma llibberamo er fele
ner nome de scialomme e dd’amistà.

 

Fratelli miei

Fratelli miei, fuggono le parole / stille d’aria non si possono afferrare / si irrita la gola secca, e tanto dolorosa è la questione / che le voci della memoria finiscono per asciugarsi. // Chi ci dà la misura del bene rispetto al male? / Nel nostro caso la canaglia con il delatore / si confusero al più ligio burocrate / che comandi, esegue e… maledizione! // Si rovesciarono i valori: gente onesta / perseguitata con accuse infamanti. // Ma se un angolo dell’uomo è una simile calamità / a pensarci finisci col perdere la testa: / sì alla memoria ma liberiamoci dell’amarezza / nel nome della pace e dell’amicizia.


Ho usato tre termini del giudaico romanesco: mappalà = rovina, caduta, accidente; scialomme = pace; amistà = amicizia.

Canta Fabber

                                                             23 ottobre 2016
                                                             (Poesia ispirata da una canzone di Fabrizio De André
                                                             e dedicata a Pier Paolo Pasolini)       

                                                

Che antro ve serve da ste vite?
Mo’ cche sto celo ar petto l’ha ccorpite
mo’ cche ’r celo a li bbordi l’ha scorpite.

Na storiaccia sbajata canta Fabber
ma un canto addietro
                                         via de leggerezza
ne li trascorzi de Pietralata
sti regazzi c’asciutteno la vita
siccome assorve er vento
le corpe vicennevole de sogni
senza staggione, diacci
ner sol d’agosto o ccotti a la tropea.

Na controvita nun cerca la sarvezza
è na sfida svariata, tignosa
affogata nell’ebbrezza
de un fonno che nun vede la radice.

Che antro ve serve da ste vite?
Mo’ cche ’r celo a li bbordi l’ha scorpite
mo’ cche er sabbione l’ha ariseppellite.

Na storiaccia sbajata canta Fabber
co un fiato de rimorzo
na traccia biforcuta de corpe
che sto novemmre assorve
ne la mollaccia a lo sboccà der Tibber.

 

Canta Faber

Cos’altro vi serve da queste vite? / Ora che il cielo al centro le ha colpite / ora che il cielo ai bordi le ha scolpite. // Una storia sbagliata canta Faber / ma un canto indietro / via di leggerezza / nei trascorsi di Pietralata / ragazzi che asciugano la vita / così come assolve il vento / le colpe vicendevoli di sogni / senza stagione, gelidi / nel sole di agosto o riarsi nella bufera. // Una controvita non cerca la salvezza / è una sfida molteplice, ostinata / affogata nell’ebbrezza / di un fondo che non vede la radice. // Cos’altro vi serve da queste vite? / Ora che il cielo ai bordi le ha scolpite / ora che il sabbione le ha riseppellite. // Una storia sbagliata canta Faber / con un alito di rimorso / una traccia biforcuta di colpe / che questo novembre assolve / nel fango alle foci del Tevere.