Andrea Gibellini è nato nel 1965 a Sassuolo. Ha pubblicato: Le ossa di Bering (Nce, 1993), La felicità improvvisa (Jaca Book, 2001, Premio Montale). Sue poesie e scritti sulla poesia sono usciti su «Nuovi Argomenti», «Antologia Vieusseux», «La Rivista dei Libri», «Poesia», «Oxford Poetry», «Agenda», «Poetry Review». Ha curato un volume della rivista «Panta» dedicato alla poesia (Bompiani, 1999) e l'almanacco Stagione di poesia (Marsilio 2002). Per le Edizioni L’Obliquo è il saggio Ricercando Auden (2003). Sue poesie sono nell' "Almanacco dello specchio" (Mondadori 2008). Nel 2011 per Incontri Editrice ha pubblicato il libro di saggi sulla poesia L'elastico emotivo. Per le Edizioni Psychodream è il quaderno in prosa Diario di Vaucluse (2014).
Non ci sono pesci o foglie di acque argentate.
Non c'è nessuno. Nemmeno uno scuotere
di rami, arbusti, di cose legnose e appuntite.
Questo stagno che s'immola di fronte a noi
ha colori rossicci, sangue diluito alla
sorgente che non conosciamo. Non c'è
requie (e regno) c'è invece paura per il
gracchiare acuto profondo del temporale
che sentiamo sfibrare sopra il bosco.
Qui avrei voluto concepire tenerezza e riposo.
Le macchine grandi dal rosso fosforescente
nel sole di giugno scavano nel fieno già mosso da languori
preautunnali e trebbiano componendo
una musica sopravvissuta. Quello è il luogo
della vacanza, sopra tutto, dentro a tutto,
oggi hanno ripreso a spingere fra le spighe alte nel cielo
il centripeto moto accusativo dove ogni cosa rinasce dal taglio.
La mattina poi il pomeriggio e non per il sole
porta fastidio negli occhi alla vista della natura soleggiata
perché i ricci sono stati dilaniati sulla strada, l'asfalto ha
rappreso la fuga, ne ho osservati almeno quattro o cinque
già finiti nella esasperata e lenta zampettata che
non é servita a nulla a ripararsi a tendere il più possibile
il castello interno di pelle e guscio d'ossa schiacciato.
Prima pareva una coincidenza sostenuta dal caldo dell'asfalto
dove l'autostrada si congiunge a statali che respirano la polvere
estromessa dalla pianura indolente: è stata una precipitosa
fuga non proprio in massa ma individuale ognuno ribaltava
il corpo in direzione contraria dopo i campi e le case
dove si intravedono altri campi e nature.
Le ombre dei morti che amo e che ho amato
— ma chissà se ho saputo davvero amare e
chiedo per favore di non pregare per me —
sono finite con altra ferraglia nella pattumiera
metallica che sta qui di fronte. Ci butto dentro
ogni cosa, dalla plastica ai vetri come un cattivo
cittadino. Faccio finta di ripulire una stanza troppo
piena: diventano inutili cose che altri
ritengono utili e vive per ogni sopravvivenza.
Per riavermi disperdo e finisco nel bosco
ogni dolore tramutandolo in apparente bene che
possa rasserenarmi. Le foglie morbide
sollevate dallo scorrere piano dei passi
toccavo sprofondando dentro la natura
— finalmente una gita, le montagne erano laggiù, appuntite,
i prati verdissimi, silenziosi, ogni minaccia esclusa.
Ora di questo ricordo faccio materia di scarto
lo riuso come fosse un'elegia non vera sull'infelicità.
Trasporto in grandi sacchi le ricorrenze,
i malumori segreti di padri e figli
e sento lo stormire d'abeti
come un concerto d'assi finito dentro a ingranaggi taglienti.
Io possiedo
l’uomo che dubita attaccato alla parete,
un pannello dipinto di rosso,
una poesia della signorina
delle sibille,
una farfalla sulla soglia di casa
in un pomeriggio estivo,
e altri sciami di cose e spettri
nel falciato terreno recintato.
Possiedo foto strappate dai giornali
di amici che non ci sono più
e di poeti che ho amato.
Un paio di scarpe invernali
pagate in saldo di primavera
a metà prezzo in un Grande Magazzino.
Un televisore che vorrei tenere spento.
Un'automobile comprata da mio padre.
Un lavoro che non mi piace.
Leggo le poesie che non possiedo.
Il mio bottino non è per nulla divino.
1
Perché quelle fabbriche così viste
in lontananza ti consolano,
hanno lunghi ferri come lunghe corna
di mammuth arrugginite e senza porte
grandi come perfette porte
di magazzini giganteschi dove non vi è nulla
[depositi di sabbia sfarfallati al sole
lungo la statale lungo ogni spinosa siepe
e dispersi furori
e il grano allungato a fremiti di canne alte]
che può consolare là sdraiate, assenti, in mezzo
al prato semiverde bruciacchiato ingiallito
sconfitto senza età e privilegi.
2
Quelle ciminiere allungate come colli di fucile
che sbuffano, sbuffano durante la notte, nascoste
e spente di cemento e mattoni di calce e cenere
inghiottita da chissà che bocca grande mai malvagia
il letto acuto di ghiaia candore di solarità
e chissà se quegli spalatori rarefatti
raccogliendo sassi hanno inconsapevoli costruito il mio letto
hanno trovato vene d’acqua
hanno girato manichette spargendo pioggia al di là
dei campi coltivati al di là del buon senso di mio padre
e mi giro rigirandomi su me stesso attraversando
come se guidassi avanti e indietro dallo stesso luogo
ma le erbe lassù adesso non c’entrano eppure sono solenni
gaudenti e felici di essere quello che sono ma vorrei
scacciare quelle consolanti immagini di gabbie di ferro
e ghiaia rapirmi quando oltrepasso finalmente
la tangenziale e vedendo oltre scendono
le luci arancioni della sera quelle case affacciate ferme
scendono su campi e asfalto tra specchi e dissolvenze lunari.
La casa è nascosta dietro un fiume
(è dentro la città e non dirlo a nessuno).
La casa è vuota, disordinata
disabitata dagli anni, gli ultimi
si tirano giù nella polvere disgraziata,
dove adesso puoi prepararti.
Questa casa
da sempre passata, così andata,
quando furtivo esploratore
aprivi la porta chiusa
del tempo (del tuo tempio)
il nero fuoco dal sottosuolo ossificato,
un cespuglio fra le acque di erbe smarrite,
dove disperso ora non parli più.
E dentro in una notte sempreterna
anche le bestiole sono fuggite
ci sono le cose di tutti che è inutile dire.
Colori d'acquamarina induriti
rovesciati di pulviscolo
e a strappi, a fantasmi,
l'umile Italia di un'idea socialista.
Tutto è lontano, ineludibile, sfigurato
le poesie stipate sul tavolo, come scatole
confuse, sono quelle di Brecht, questo ricordo.
E come animali scampati alle tagliole abbiamo preso tutto.
Qui le nuvole sull'autostrada in direzione Turingia,
coprono campi laghi luoghi
i lunghi flessibili alberi di possibili foreste nere.
Il parco è spettro di epoche remote e
improbabili: l'ex DDR vive di lunghe
passeggiate dentro minareti di piccoli boschi.
Nomi intravedo che non voglio vedere.
Recinti.
Tornare a casa prima della fine
qualcuno in silenzio avrà detto.
La natura è matura per essere
tagliata in quadrati perfetti.
E oggi prego affinché
l'imperfezione mi sia per sempre amica.
Al mattino
sul terrazzo luccicato dal sole
sulla ringhiera nera bagnata
dall'acqua
hanno costruito la tana-rifugio.
L'ho scoperto casualmente rimuovendo
le merde secche, rarefatte del cane
che alla notte dal caldo ha preferito
farla in balcone al fresco del sole
tiepido di molte lune.
Nei giorni d'estate
le vespe
quando il caldo colora
a calce ogni cosa,
impazziscono, sentono il nemico.
Di notte, invece, assonnate
sostano timorose nei buchi
di terracotta e temono il
freddo: d'inverno spariscono
lasciando intatta la casa.
Formiche e insetti fanno rumore,
argentini silenzi sospesi di paura
e di niente,
e per loro non provo
nessuna pietà. Le punte dei rami
come aghi incidono l'aria e oggi mi sono
sempre più nemiche. Ho in mano
un prodotto che può sterminarle
risucchiandole finalmente
in un eterno vuoto di veleno.
Non disturbano si muovono con
velocità ma non
entrano non mettono
in subbuglio i miei occhi che
guardano sempre con impazienza la natura.
Qui e dove la discarica naturale
senza acque ferme e cementi
ma soltanto per l'incedere delle stagioni
mai dimesse e violente senza fogne e animali
dove però non vorresti mai transitare
quando superi quel veleno
di acque dentro stagnanti
— il tuo paesaggio, quello vero — che
proprio vicino a te
smaltisce minerali, materie grezze
quasi trattenute solidificate e che vanno a
riemergere a sfociare mentre proprio il fiume
non ancora dismesso supera il pericolo
condensandosi in luoghi di provvisoria
calma. Il fiume assiepato da contenitori
non rievocazione ma assoluta raffigurazione
fra insenature torbide di melma e acqua
chiamando per nome e difficoltà ogni cosa
e lattine e scarti centrifughi di ogni genere, ora reperti
di gialli che si smerigliano con rivoli di fiori e arbusti
dietro l'acciottolato fatto di ghiaia e sassi muschiosi.
Stordiscono i fiori, le api macchiate di sole
Stordisce questo presunto idillio
dove riunisci il corpo, le intenzioni, rannicchiandoti
assuefacendoti all'aperto a cercare un nido
non saccheggiato dove la rovina come il franare
solenne e nostalgico di un bianco calanco
in te si divide come l'amore senza
terra annichilendoti tra arbusti
nascondendoti nelle siepi
come un passero furtivo e disperso
perdendo continuamente il proprio centro
e saccheggiando inutilmente l'epicentro del cuore.
Oggi ti sei chiesto: «Può l'arte nascere
dal nulla?» «Contemplare il deserto, farlo
fiorire?». Al solito evasivo, credendo in nulla,
anzi continuando a saccheggiare a sdolcinare
tutto ciò che può avere a che fare con i nervi,
— ma lo sai che non puoi durare a lungo.
Provi a ripartire dalle distese d'acqua
che si precipitano dagli argini fra le erbe bagnate
nell'imbucare precarie sponde d'argilla
(ma questa, lo so, è la calma segreta del ritorno a casa)
e nella sacca di terra sporca
mobile e fangosa sentire oltre i sassi
il muschio verde, le foglie semisommerse
verso l'alba del mare aperto, gli insetti e animali
che ritieni pericolosi e insostenibili.
Qui sfalci l'erba sempre nello stesso
luogo dove passato e presente si toccano
penetrano come possono penetrare quei rami
di piante secche dentro a un cactus nel suolo pietroso.
Qui e dove ogni cosa
appare ed è più vera di ogni vero
tra gli alberi e l'erba e il fieno rinsecchito
dal sole in un paesaggio di talpe, di buchi
di mucchietti di terra, un rivo d'acqua annuncia letame e fango
nelle pupille folgorate dal buio. Qui è il silenzio
dei grilli, il cerchio nero di un fuoco spento
una sottile barriera metallica
(una protezione arrugginita, nera)
stringe ancora il rettangolo del tennis. Larghi squarci
fanno trapassare innocuo il sole —
stamattina è fosco di nubi basse, minacciose, distanti
in un sentore di diffuso clamore
come dopo una battaglia.
Là in fondo c'è il campo da basket semisommerso
da una giungla precoce sedie bianche
e il cemento del tennis conquistava la visione di un viola intenso
in un fuggevole andirivieni di ospiti inattesi.
Le edere scarlatte si sono attorcigliate fedeli ai reticolati
le erbe matte, quelle selvagge, quelle che pungono,
hanno ricostruito il loro ambiente inalterato
in un idillio senza pace dove sotto tutto si increspa.
Sottile tra i rami come un occhio di luce preso dal sole
un rumore di spago inavvertito o un frusciare
non più domestico nell'erba, ogni cosa è muta
ma parla più di ogni altro dire
ritorna come da un'aldilà remoto una paura
di colori mai visti.
Perchè tutto arrivi a giusta perfezione
mancano lamine sbrecciate
lo scintillio delle lamiere piegate
(tu che ami la bellezza che non c'è)
e nascosti battiti di ciglia —
il duro sentire dell'amore degli altri.
Ho rivisto le lucciole stanotte
affondavano pigre dentro all'erba del prato
intermittenti esploratori nella macchia
scura della notte. E' un luogo di passaggio
dove sull'orizzonte non lontano da qui
si sviluppano in verticale palazzi
accesi da ogni tramonto, da tutte le mattine
quando il sole o la pioggia inverdiscono
la natura circostante. Non so esattamente
cosa vogliono ancora dirmi invitandomi
tutte le sere specialmente nella prime sere
d'estate quando il cielo nel pomeriggio s'inazzurra
come a incidersi nel fresco degli alberi delle colline
che da quaggiù respiro e imploro, un ultimo
Cortéz dove il mio oro sono le messi
che colgo dilavate e infinite...
Forse è quello che vorrei sentire
fra tutte le salite fra tutte le discese
sdraiandomi indolenzito preso
dal fastidio della camminata dalla città
fino alla campagna e poi ancora sopra
a rivedere nella boscaglia il segno dei calanchi
le impronte di creta sparse
dal fermento continuo delle stagioni
dai cinghiali che velocissimi e ciechi
corrono verso un qualcosa che
sentono soltanto dall'istinto.
Ma non so per quanto tempo ancora
(o se questo tempo alternato è già finito)
chiederò d’imbattermi nelle luci improvvise
della sera quando i rumori sono spenti e
lucciole moribonde sfuggono dalle tane
ma so che devo aspettare inseguirle rimanere
nel fresco accurato dell'erba con loro
non posso scappare devo seguire il sentiero
di cemento tra le case raggiungere sprazzi di
cespugli sentire il più possibile nell'efficacia
di un respiro anche non mio.
Chi passa di qui per caso,
— e spesso sono frotte di persone in corsa
o gruppi di ragazzi fermi
a parlare tra il muro e il motorino —
le riconosce senza riconoscerle
perché sopravvivono nonostante tutto
perchè col trascorrere delle stagioni, dei temporali
hanno disperso una loro precisa identità
si sono nascoste per anni interi e di tanto in tanto
le vedevo non a sciami ma da sole e senza compagni
in qualche anfratto desolato pieno di calcina
dove a spuntare una pianta o un fiore
pareva difficile quasi un disonore e altri steli
appuntiti di foglie acuminate mi colpivano.
Ma oggi ho rivisto le lucciole a lampi
ho sentito il loro tremito d'impazienza
hanno scosso l'aria
drappeggiato come un lungo manto
il colore ignoto della sera e
hanno infine acceso una parte di oscurità.
Non toccarle con le mani
lasciale andare dove vogliono andare
perchè sentono muovendosi ogni cosa buia ...
Sarà uno dei nostri ultimi giri,
uno degli ultimi viaggi dentro al tuo paradiso terreno,
ora, in questa mattinata gelida e così reale
dell’inverno combattuto.
Il viaggio è stato più lungo del solito.
Alle estati abbiamo sostituito chissà cosa,
alle noncuranze il secco greto dei furenti anni.
Noi due aguirre nel tuo verde iride lucente
abbiamo attraversato dove tutto pare inesplorato
verso il lago appuntito come ai primordi
e quindi intorno al midollo verdastro di respiro cupo.
E’, pensavo, il tuo cerchio magico
quello che sarà e mai sarà stato.
Se superi le curve appare l’erba dove solo la luna riflette pozze
d’acqua lasciate dalla pioggia.
Le mucche sono bianchi teli deposti su di un velenoso pendio
di calma vero suono infantile di camion e sabbia di fiamma
fuori e dentro me. Sfocata in viaggio da lenti colli asolani l’estate
diventa autunno la bufera cercata d’acqua spezza l’inerzia
delle consuetudini.
E ancora se puoi ritorna felicità improvvisa incanta le immobili
bestie nella tua sera.
Thy quiet house
The crozier’s curve runs in the wall
The hard, feather-white, as a dolphin on sea-brink
Ezra Pound
Tenebre e fuochi sgrondano tra gli ulivi del porticato
il blu riflesso del ruscello scorre nella mezzanotte…
sventagliate di notturno polline e braci d’ombre,
chiazze inesistenti di luce insanguinata.
Il Tirreno sprofonda in scaglie verdastre di dirupi
e mare
lungo i muri fioriti taglia
lo spettrale dolore che indenne non si dissotterra,
come divino sguardo impresso sul marmo.
E’ mattina nel sole che sfolgora
dissecca la rugiada in polvere;
e questa che vedi è la quieta dimora
- vuoti secchi di cemento da gettare,
occhi e cuori da assorbire ancora uscendo fuori disadorni
dalla fanghiglia come il giallo dell’ibisco
che fuoriesce dalla palude…
il lupo d’incanto tra la siepe fugge
portando con sé un mistero di memoria.
- Ingannala, violentala con il più dissipato amore,
che rinneghi amando una volta per sempre le sue radici.
Ma piove
l’abbandono nel silenzio e nello sdegno,
lo sfavillìo di una giornata assorta
nei suoi momenti di primavera.
Inattese
rispuntano le gemme dall’antico sanatorio in disuso
dove la meridiana segnava l’ora con l’ombra
e i cartigli stravolti
indicavano una scena vissuta e ripetuta.
- C’è un paesaggio orlato di pini che si dispiegano
lungo la curva d’un viale, un cancello rimasto semiaperto
disfiora un’aiuola, una quiete tra l’inganno e la gioia,
(il dimenticare nel fastidio di essere per sempre
dimenticati)
in un giorno fresco, qualunque, di settembre.
L’immagine sfatta, che ammonisce, ancora per sé viva
di chi esclude il desiderio
amando l’amicizia delle cose ferite.
La cecità – e il silenzio azzurro non più vero,
la più sconvolta, insonne, immobile paura.
Nota: Il “sanatorio” è Lombroso, manicomio di Reggio Emilia dove fu rinchiuso per alcuni anni il pittore Antonio Ligabue.
Di fianco a questo antico manicomio – oramai completamente in rovina – ne sorge uno nuovo.
Finalmente
l’autunno sfocia al sole di steli acerbi
dove asciugano tra nuvole d’inizio estate.
- Nel paesaggio di corti e torri nello sfocato
verdeggiare
la fontana del giardino.
Sulla solennità del masso, la lucertola squamarsi
fra il grigio torbido delle acque
nell’improvviso della stagione liquefatta, nera.
Nella voce d’altri un velo di brezza
Quel pomeriggio dolce
si andava lungo il fiume…
nessuna cosa nella calma si smemora sorrideva…
- sbattuti sul confine della corrente,
l’esangue groviglio dei pini,
i filamenti della natura dispogliata:
la furia indifferente come definitiva solarità.
Quietamente, lontano
appariva
- il fiotto della pietra contro l’argine –
la biscia di cenere sulle acque del Ceno.
Una grande sera, come un’ultima sera
lungo una pianura inondata da un sole sconvolto,
divenuto buio dietro il rettifilo delle case.
Le luci verso la città e i pini,
fiumi nella notte
l’ombra annegata nello splendore;
ed è il disfarsi della chioma di un albero.
Poco azzurro primaverile nel brillare eterno del sole,
Paradiso assurdo di un mare crudele.
Bisogna essere una salamandra che tra il fuoco
brucia dallo sguardo indifferente
che una lontra assorta tra le acque spumose,
fango di fiume adesso scorre.
La marmotta fischia l’ultima parola di un suono rimasto.
Ogni clamore è spento –
nella penombra sconosciuta i leoni immemori del Duomo.
La casa vicino alla riva nella sacca di Scardovari
piantata come una foglia dorata dell’autunno
al confine di questa Emilia, la terra fra le acque
e la pietra immobile dell’edificio corroso del mezzo
di un lago (o freddo fiume, ancora?), e l’erba alta
verdeggiante, il cielo azzurro come l’acqua
senza più confine.
La strada verso il mare, la pioggia
di una mattina sull’Adriatico,
salmastro forte e acqua verde dentro
quei due cani neri sulla spiaggia come uomini
a innamorarsi e arbusti tra i piedi, sassi,
liste d’alghe, la grande barca non ancorata alla riva
di un cantiere in disarmo, legno nero, sbriciolato,
come un temporale che sfibra
quando il primo sole emoziona l’estate.
Nel giardino davanti alla finestra
qualcuno ha aperto l'acqua in
un momento di silenzio intatto.
Il rumore violento del trapano
ha smesso di perforare la
parete di una casa.
La bufera ha scoperchiato
alcuni tetti, ha divelto gli alberi.
Automezzi di soccorso, quando la
luce è tornata e il cielo è ritornato
chiaro, hanno ripulito la strada da
rami, cartacce, tronchi. Alcuni alberi
hanno distrutto macchine, altri
si sono rovesciati all'indietro colpendo
vitigni, zone d'ombra.
Piccolo spazzacamino
dove sei,
ti cerco tra le nuvole
dei tetti, dall’alto, sopra
la città, sulle antenne delle case
in pericolo, in bilico
e non scivolare sulle grondaie
splendenti di pioggia e freddo.
C’è stata una sera d’agosto
sembrava la fine di tutto
e ti ho osservato (volevo vederti)
tutto nero tra i cornicioni,
alle spalle delle stelle che dicono infinite.
E tu sei, esisti, nei luoghi
impensabili: una cantina dismessa,
seminterrati polverosi,
la tua scopa è una lancia, sposta
le cose, pulisce la cenere,
sai come entrare senza bruciarti
nel fuoco.
Piccolo spazzacamino,
guida indiana,
tu che superi saltando il vuoto delle case
tu che cerchi le impronte dove non ci sono.
La poesia ha bisogno di libertà
ma anche di uno spazio sicuro.
Allora la rinchiudo in un recinto
o dentro un giardino, la delimito
per bene con paletti e aste di ferro
questo dovrebbe servire a proteggere
non impedendo a qualcuno di entrare.
E' come il muso di una mucca che tocca i fili
elettrici e che prova spavento
e non può scappare. Ma il guardiano
può entrare dentro quel pascolo,
tutti vi possono entrare
e loro invece, dico le mucche,
non possono più scappare.
Perchè una volta catturata la poesia
non deve più fuggire, andare per conto suo,
è un mondo a parte dentro il mondo normale
che tutti però possono visitare, sentire, ascoltare.
Le parole in natura senza arte
non avrebbero senso
o un senso assolutamente abituale.
L'arte aiuta a potenziare l'attività che si
svolge in quel recinto-giardino dove tutto
è sempre in azione anche quando vediamo
le bestie ferme a guardare
il cielo, la luna, le nuvole volare. Scattano
quando qualcuno tocca l'erba
del prato segna con il passo un'altra strada
vuole vedere le cose da quella strana collina.
Poi arriva la notte. Allora il giardiniere
dopo aver pulito tutto quello spazio piccolo
ma per lui enorme, perchè è solo, cerca
di riposare, di andare a dormire e ripensa: ho falciato
quelle piante, tagliato con le cesoie
un grappolo di more, perchè l'uomo è goloso,
ho pulito le stalle, ho guardato filare il cane,
tutto è rimasto com'era.
La poesia non ha bisogno
di niente: se qualcuno vuole entra
e può anche mangiare, essere ospite
in una casetta dentro il grande giardino.
Può vivere per alcuni giorni in un modo
diverso. Oggi nessuno potrebbe davvero vivere
tutti giorni con la poesia, sarebbe troppo
strano sia per lui che per gli altri.
È meglio quindi essere ospitati che ospitare,
così, chi vuole salire fin lassù,
è libero di fare quello che vuole e può andarsene
quando vuole. Invece il contadino-giardiniere
non può fuggire e con lui le sue bestie.
Coltivo, ma ancora per poco, con futile
esibizionismo i miei trentasette anni qui
adagiato come una foca in un luogo ai più
sperduto, sconosciuto, malfamato. L'iris
selvatico mi sorride come per dire cerca, trova,
io che non so neppure il nome definito delle
piante, delle cose e degli animali nascosti:
giovannino col suo fucile da caccia sicuramente
mi avrebbe sparato e il suo cane avrebbe lasciato
il mio corpo moribondo sullo sterrato con
indifferenza, con indolenza quasi. Così, coi
pochi bagnanti, con qualche coppia libera
di giostrare finalmente i propri marmocchi, con la
sabbia che ha smangiato parte della spiaggia
— aspetto vivamente i reticolati invernali, il freddo,
le piante semidistrutte dal vento furioso — inseguo
il tramutarsi delle onde in spume scheggianti,
la sagoma della petroliera lontana, gli echi
del disfarsi orientale di case squarciate in due,
dei soldi che non ci sono, o per pochi — così
dicono — i fotogrammi dei politici canaglia.
Mi tengo stretto l'esibizionismo, gli araldici
occhi di chi guarda il futuro,
le ombre della magnolia sulla strada.
Nota: ‘giovannino’ è Giovanni Pascoli, così veniva chiamato affettuosamente dai suoi familiari e amici.