Andrea Gibellini

Andrea Gibellini è nato nel 1965 a Sassuolo. Ha pubblicato: Le ossa di Bering (Nce, 1993), La felicità improvvisa (Jaca Book, 2001, Premio Montale). Sue poesie e scritti sulla poesia sono usciti su «Nuovi Argomenti», «Antologia Vieusseux»,  «La Rivista dei Libri», «Poesia», «Oxford Poetry», «Agenda», «Poetry Review». Ha curato un volume della rivista «Panta» dedicato alla poesia (Bompiani, 1999) e l'almanacco Stagione di poesia (Marsilio 2002). Per le Edizioni L’Obliquo è il saggio Ricercando Auden (2003).  Sue poesie sono nell' "Almanacco dello specchio" (Mondadori 2008). Nel 2011 per Incontri Editrice ha pubblicato il libro di saggi sulla poesia  L'elastico emotivo. Per le Edizioni Psychodream è il quaderno in prosa Diario di Vaucluse (2014).

Non ci sono pesci o foglie


Non ci sono pesci o foglie di acque argentate.
Non c'è nessuno. Nemmeno uno scuotere
di rami, arbusti, di cose legnose e appuntite.
Questo stagno che s'immola di fronte a noi
ha colori rossicci, sangue diluito alla
sorgente che non conosciamo. Non c'è
requie (e regno) c'è invece paura per il
gracchiare acuto profondo del temporale 
che sentiamo sfibrare sopra il bosco.
Qui avrei voluto concepire tenerezza e riposo.

Ricci trebbiatrici e altro


Le macchine grandi dal rosso fosforescente
nel sole di giugno scavano nel fieno già mosso da languori
preautunnali e trebbiano componendo 
una musica sopravvissuta. Quello è il luogo
della vacanza, sopra tutto, dentro a tutto,


oggi hanno ripreso a spingere fra le spighe alte nel cielo
il centripeto moto accusativo dove ogni cosa rinasce dal taglio.
La mattina poi il pomeriggio e non per il sole


porta fastidio negli occhi alla vista della natura soleggiata
perché i ricci sono stati dilaniati sulla strada, l'asfalto ha
rappreso la fuga, ne ho osservati almeno quattro o cinque
già finiti nella esasperata e lenta zampettata che


non é servita a nulla a ripararsi a tendere il più possibile 
il castello interno di pelle e guscio d'ossa schiacciato.


Prima pareva una coincidenza sostenuta dal caldo dell'asfalto


dove l'autostrada si congiunge a statali che respirano la polvere
estromessa dalla pianura indolente: è stata una precipitosa
fuga non proprio in massa ma individuale ognuno ribaltava


il corpo in direzione contraria dopo i campi e le case 
dove si intravedono altri campi e nature.

Nel bosco


Le ombre dei morti che amo e che ho amato 
— ma chissà se ho saputo davvero amare e
chiedo per favore di non pregare per me —
sono finite con altra ferraglia nella pattumiera


metallica che sta qui di fronte. Ci butto dentro
ogni cosa, dalla plastica ai vetri come un cattivo
cittadino. Faccio finta di ripulire una stanza troppo
piena: diventano inutili cose che altri


ritengono utili e vive per ogni sopravvivenza.
Per riavermi disperdo e finisco nel bosco 
ogni dolore tramutandolo in apparente bene che 
possa rasserenarmi. Le foglie morbide


sollevate dallo scorrere piano dei passi
toccavo sprofondando dentro la natura
— finalmente una gita, le montagne erano laggiù, appuntite,
i prati verdissimi, silenziosi, ogni minaccia esclusa.
 
Ora di questo ricordo faccio materia di scarto
lo riuso come fosse un'elegia non vera sull'infelicità.
Trasporto in grandi sacchi le ricorrenze,
i malumori segreti di padri e figli 


e sento lo stormire d'abeti 
come un concerto d'assi finito dentro a ingranaggi taglienti.

Alfabeto


Io possiedo
l’uomo che dubita attaccato alla parete,
un pannello dipinto di rosso, 


una poesia della signorina 
delle sibille,
una farfalla sulla soglia di casa


in un pomeriggio estivo, 
e altri sciami di cose e spettri
nel falciato terreno recintato. 


Possiedo foto strappate dai giornali
di amici che non ci sono più
e di poeti che ho amato.


Un paio di scarpe invernali
pagate in saldo di primavera
a metà prezzo in un Grande Magazzino. 


Un televisore che vorrei tenere spento.
Un'automobile comprata da mio padre.
Un lavoro che non mi piace.


Leggo le poesie che non possiedo.
Il mio bottino non è per nulla divino.

Fabbriche cemento ghiaia e altre cose


1


Perché quelle fabbriche così viste
in lontananza ti consolano,


hanno lunghi ferri come lunghe corna
di mammuth arrugginite e senza porte


grandi come perfette porte
di magazzini giganteschi dove non vi è nulla


[depositi di sabbia sfarfallati al sole
lungo la statale lungo ogni spinosa siepe


e dispersi furori
e il grano allungato a fremiti di canne alte]


che può consolare là sdraiate, assenti, in mezzo
al prato semiverde bruciacchiato ingiallito


sconfitto senza età e privilegi.




2


Quelle ciminiere allungate come colli di fucile
che sbuffano, sbuffano durante la notte, nascoste


e spente di cemento e mattoni di calce e cenere
inghiottita da chissà che bocca grande mai malvagia


il letto acuto di ghiaia candore di solarità
e chissà se quegli spalatori rarefatti


raccogliendo sassi hanno inconsapevoli costruito il mio letto
hanno trovato vene d’acqua


hanno girato manichette spargendo pioggia al di là
dei campi coltivati al di là del buon senso di mio padre


e mi giro rigirandomi su me stesso attraversando
come se guidassi avanti e indietro dallo stesso luogo


ma le erbe lassù adesso non c’entrano eppure sono solenni
gaudenti e felici di essere quello che sono ma vorrei


scacciare quelle consolanti immagini di gabbie di ferro
e ghiaia rapirmi quando oltrepasso finalmente


la tangenziale e vedendo oltre scendono
le luci arancioni della sera quelle case affacciate ferme


scendono su campi e asfalto tra specchi e dissolvenze lunari.

(Casa nascosta)


La casa è nascosta dietro un fiume 
(è dentro la città e non dirlo a nessuno). 
La casa è vuota, disordinata
disabitata dagli anni, gli ultimi
si tirano giù nella polvere disgraziata, 
dove adesso puoi prepararti.
Questa casa 
da sempre passata, così andata,
quando furtivo esploratore
aprivi la porta chiusa 
del tempo (del tuo tempio)  
il nero fuoco dal sottosuolo ossificato, 
un cespuglio fra le acque di erbe smarrite, 
dove disperso ora non parli più.
E dentro in una notte sempreterna 
anche le bestiole sono fuggite
ci sono le cose di tutti che è inutile dire.
Colori d'acquamarina induriti 
rovesciati di pulviscolo 
e a strappi, a fantasmi,  
l'umile Italia di un'idea socialista.
Tutto è lontano, ineludibile, sfigurato
le poesie stipate sul tavolo, come scatole
confuse, sono quelle di Brecht, questo ricordo. 
E come animali scampati alle tagliole abbiamo preso tutto.

Weimar


Qui le nuvole sull'autostrada in direzione Turingia,
coprono campi laghi luoghi
i lunghi flessibili alberi di possibili foreste nere. 


Il parco è spettro di epoche remote e
improbabili: l'ex DDR vive di lunghe
passeggiate dentro minareti di piccoli boschi. 


Nomi intravedo che non voglio vedere.
Recinti.


Tornare a casa prima della fine
qualcuno in silenzio avrà detto.


La natura è matura per essere 
tagliata in quadrati perfetti.  


E oggi prego affinché
l'imperfezione mi sia per sempre amica.

Idillio


Al mattino 
sul terrazzo luccicato dal sole
sulla ringhiera nera bagnata 
dall'acqua 
hanno costruito la tana-rifugio. 
L'ho scoperto casualmente rimuovendo
le merde secche, rarefatte del cane
che alla notte dal caldo ha preferito
farla in balcone al fresco del sole 
tiepido di molte lune. 
Nei giorni d'estate 
le vespe
quando il caldo colora 
a calce ogni cosa,
impazziscono, sentono il nemico.
Di notte, invece, assonnate
sostano timorose nei buchi
di terracotta e temono il
freddo: d'inverno spariscono
lasciando intatta la casa. 
Formiche e insetti fanno rumore,
argentini silenzi sospesi di paura 
e di niente,
e per loro non provo
nessuna pietà. Le punte dei rami
come aghi incidono l'aria e oggi mi sono
sempre più nemiche. Ho in mano 
un prodotto che può sterminarle
risucchiandole finalmente 
in un eterno vuoto di veleno.
Non disturbano si muovono con 
velocità ma non
entrano non mettono
in subbuglio i miei occhi che
guardano sempre con impazienza la natura.

La discarica naturale


Qui e dove la discarica naturale
senza acque ferme e cementi


ma soltanto per l'incedere delle stagioni
mai dimesse e violente senza fogne e animali


dove però non vorresti mai transitare


quando superi quel veleno
di acque dentro stagnanti


— il tuo paesaggio, quello vero — che
proprio vicino a te


smaltisce minerali, materie grezze
quasi trattenute solidificate e che vanno a


riemergere a sfociare mentre proprio il fiume
non ancora dismesso supera il pericolo


condensandosi in luoghi di provvisoria 
calma. Il fiume assiepato da contenitori


non rievocazione ma assoluta raffigurazione
fra insenature torbide di melma e acqua


chiamando per nome e difficoltà ogni cosa
e lattine e scarti centrifughi di ogni genere, ora reperti


di gialli che si smerigliano con rivoli di fiori e arbusti
dietro l'acciottolato fatto di ghiaia e sassi muschiosi.




Stordiscono i fiori, le api macchiate di sole
Stordisce questo presunto idillio 


dove riunisci il corpo, le intenzioni, rannicchiandoti
assuefacendoti all'aperto a cercare un nido


non saccheggiato dove la rovina come il franare
solenne e nostalgico di un bianco calanco


in te si divide come l'amore senza
terra annichilendoti tra arbusti 


nascondendoti nelle siepi
come un passero furtivo e disperso


perdendo continuamente il proprio centro
e saccheggiando inutilmente l'epicentro del cuore.


Oggi ti sei chiesto: «Può l'arte nascere
dal nulla?» «Contemplare il deserto, farlo


fiorire?». Al solito evasivo, credendo in nulla,
anzi continuando a saccheggiare a sdolcinare


tutto ciò che può avere a che fare con i nervi,
— ma lo sai che non puoi durare a lungo.


Provi a ripartire dalle distese d'acqua
che si precipitano dagli argini fra le erbe bagnate


nell'imbucare precarie sponde d'argilla
(ma questa, lo so, è la calma segreta del ritorno a casa) 


e nella sacca di terra sporca 
mobile e fangosa sentire oltre i sassi


il muschio verde, le foglie semisommerse
verso l'alba del mare aperto, gli insetti e animali


che ritieni pericolosi e insostenibili.
Qui sfalci l'erba sempre nello stesso 
luogo dove passato e presente si toccano


penetrano come possono penetrare quei rami
di piante secche dentro a un cactus nel suolo pietroso.

Dove ogni cosa


Qui e dove ogni cosa
appare ed è più vera di ogni vero


tra gli alberi e l'erba e il fieno rinsecchito 
dal sole in un paesaggio di talpe, di buchi  


di mucchietti di terra, un rivo d'acqua annuncia letame e fango
nelle pupille folgorate dal buio. Qui è il silenzio


dei grilli, il cerchio nero di un fuoco spento


una sottile barriera metallica
(una protezione arrugginita, nera)


stringe ancora il rettangolo del tennis. Larghi squarci


fanno trapassare innocuo il sole — 
stamattina è fosco di nubi basse, minacciose, distanti


in un sentore di diffuso clamore 
come dopo una battaglia.


Là in fondo c'è il campo da basket semisommerso 
da una giungla precoce sedie bianche 


e il cemento del tennis conquistava la visione di un viola intenso
in un fuggevole andirivieni di ospiti inattesi. 


Le edere scarlatte si sono attorcigliate fedeli ai reticolati
le erbe matte, quelle selvagge, quelle che pungono,


hanno ricostruito il loro ambiente inalterato
in un idillio senza pace dove sotto tutto si increspa.


Sottile tra i rami come un occhio di luce preso dal sole
un rumore di spago inavvertito o un frusciare


non più domestico nell'erba, ogni cosa è muta
ma parla più di ogni altro dire


ritorna come da un'aldilà remoto una paura
di colori mai visti.


Perchè tutto arrivi a giusta perfezione
mancano lamine sbrecciate 


lo scintillio delle lamiere piegate
(tu che ami la bellezza che non c'è)
 
e nascosti battiti di ciglia —


il duro sentire dell'amore degli altri.

Ho rivisto le lucciole stanotte


Ho rivisto le lucciole stanotte
affondavano pigre dentro all'erba del prato


intermittenti esploratori nella macchia
scura della notte. E' un luogo di passaggio


dove sull'orizzonte non lontano da qui
si sviluppano in verticale palazzi 


accesi da ogni tramonto, da tutte le mattine
quando il sole o la pioggia inverdiscono


la natura circostante. Non so esattamente
cosa vogliono ancora dirmi invitandomi


tutte le sere specialmente nella prime sere 
d'estate quando il cielo nel pomeriggio s'inazzurra


come a incidersi nel fresco degli alberi delle colline
che da quaggiù respiro e imploro, un ultimo


Cortéz dove il mio oro sono le messi  
che colgo dilavate e infinite... 


Forse è quello che vorrei sentire
fra tutte le salite fra tutte le discese  


sdraiandomi indolenzito preso 
dal fastidio della camminata dalla città  


fino alla campagna e poi ancora sopra
a rivedere nella boscaglia il segno dei calanchi


le impronte di creta sparse 
dal fermento continuo delle stagioni


dai cinghiali che velocissimi e ciechi 
corrono verso un qualcosa che 


sentono soltanto dall'istinto. 
Ma non so per quanto tempo ancora


(o se questo tempo alternato è già finito)
chiederò d’imbattermi nelle luci improvvise


della sera quando i rumori sono spenti e
lucciole moribonde sfuggono dalle tane  


ma so che devo aspettare inseguirle rimanere
nel fresco accurato dell'erba con loro


non posso scappare devo seguire il sentiero
di cemento tra le case raggiungere sprazzi di


cespugli sentire il più possibile nell'efficacia
di un respiro anche non mio.


Chi passa di qui per caso,
— e spesso sono frotte di persone in corsa


o gruppi di ragazzi fermi 
a parlare tra il muro e il motorino —


le riconosce senza riconoscerle
perché sopravvivono nonostante tutto


perchè col trascorrere delle stagioni, dei temporali
hanno disperso una loro precisa identità


si sono nascoste per anni interi e di tanto in tanto
le vedevo non a sciami ma da sole e senza compagni


in qualche anfratto desolato pieno di calcina
dove a spuntare una pianta o un fiore 


pareva difficile quasi un disonore e altri steli
appuntiti di foglie acuminate mi colpivano. 


Ma oggi ho rivisto le lucciole a lampi 
ho sentito il loro tremito d'impazienza 


hanno scosso l'aria 
drappeggiato come un lungo manto 


il colore ignoto della sera e
hanno infine acceso una parte di oscurità. 


Non toccarle con le mani
lasciale andare dove vogliono andare


perchè sentono muovendosi ogni cosa buia ...

Il paradiso terreno


Sarà uno dei nostri ultimi giri,
uno degli ultimi viaggi dentro al tuo paradiso terreno,
ora, in questa mattinata gelida e così reale
dell’inverno combattuto.
Il viaggio è stato più lungo del solito.
Alle estati abbiamo sostituito chissà cosa,
alle noncuranze il secco greto dei furenti anni.
Noi due aguirre nel tuo verde iride lucente
abbiamo attraversato dove tutto pare inesplorato
verso il lago appuntito come ai primordi
e quindi intorno al midollo verdastro di respiro cupo.
E’, pensavo, il tuo cerchio magico
quello che sarà e mai sarà stato.

Mucche


Se superi le curve appare l’erba dove solo la luna riflette pozze
d’acqua lasciate dalla pioggia.
Le mucche sono bianchi teli deposti su di un velenoso pendio
di calma vero suono infantile di camion e sabbia di fiamma
fuori e dentro me. Sfocata in viaggio da lenti colli asolani l’estate
diventa autunno la bufera cercata d’acqua spezza l’inerzia
delle consuetudini.
E ancora se puoi ritorna felicità improvvisa incanta le immobili 
bestie nella tua sera.

Il sentiero di E.P.


                                                                  Thy quiet house
                                                   The crozier’s curve runs in the wall
                                             The hard, feather-white, as a dolphin on sea-brink


                                                                      Ezra Pound



Tenebre e fuochi sgrondano tra gli ulivi del porticato
il blu riflesso del ruscello scorre nella mezzanotte…
sventagliate di notturno polline e braci d’ombre,
chiazze inesistenti di luce insanguinata.


Il Tirreno sprofonda in scaglie verdastre di dirupi  
                                                                    e mare
lungo i muri fioriti taglia
lo spettrale dolore che indenne non si dissotterra,
come divino sguardo impresso sul marmo.


E’ mattina nel sole che sfolgora
dissecca la rugiada in polvere;
e questa che vedi è la quieta dimora
- vuoti secchi di cemento da gettare,


occhi e cuori da assorbire ancora uscendo fuori disadorni
dalla fanghiglia come il giallo dell’ibisco
che fuoriesce dalla palude…
il lupo d’incanto tra la siepe fugge
portando con sé un mistero di memoria.


- Ingannala, violentala con il più dissipato amore,
che rinneghi amando una volta per sempre le sue radici.

Nel parco di un luogo in rovina

 

Ma piove


l’abbandono nel silenzio e nello sdegno,
lo sfavillìo di una giornata assorta
nei suoi momenti di primavera.
                                                                             Inattese
rispuntano le gemme dall’antico sanatorio in disuso
dove la meridiana segnava l’ora con l’ombra
e i cartigli stravolti
indicavano una scena vissuta e ripetuta.


- C’è un paesaggio orlato di pini che si dispiegano
lungo la curva d’un viale, un cancello rimasto semiaperto
disfiora un’aiuola, una quiete tra l’inganno e la gioia,
(il dimenticare nel fastidio di essere per sempre 
                                                              dimenticati)
in un giorno fresco, qualunque, di settembre.


L’immagine sfatta, che ammonisce, ancora per sé viva
di chi esclude il desiderio
amando l’amicizia delle cose ferite.


La cecità – e il silenzio azzurro non più vero,
la più sconvolta, insonne, immobile paura.






Nota: Il “sanatorio” è Lombroso, manicomio di Reggio Emilia dove fu rinchiuso per alcuni anni il pittore Antonio Ligabue.

Di fianco a questo antico manicomio – oramai completamente in rovina – ne sorge uno nuovo.

Verso il fiume

 

Finalmente


l’autunno sfocia al sole di steli acerbi
dove asciugano tra nuvole d’inizio estate.


- Nel paesaggio di corti e torri nello sfocato
verdeggiare
la fontana del giardino.
Sulla solennità del masso, la lucertola squamarsi
fra il grigio torbido delle acque
nell’improvviso della stagione liquefatta, nera.


Nella voce d’altri un velo di brezza


                Quel pomeriggio dolce
                si andava lungo il fiume…


nessuna cosa nella calma si smemora sorrideva…
- sbattuti sul confine della corrente,
l’esangue groviglio dei pini,
i filamenti della natura dispogliata:
la furia indifferente come definitiva solarità.


Quietamente, lontano
appariva


- il fiotto della pietra contro l’argine –


la biscia di cenere sulle acque del Ceno.

Quattro paesaggi - I

 

Una grande sera, come un’ultima sera
lungo una pianura inondata da un sole sconvolto,
divenuto buio dietro il rettifilo delle case.
Le luci verso la città e i pini,
fiumi nella notte
l’ombra annegata nello splendore;
ed è il disfarsi della chioma di un albero.


Poco azzurro primaverile nel brillare eterno del sole,
Paradiso assurdo di un mare crudele.

Quattro paesaggi - II

 

Bisogna essere una salamandra che tra il fuoco
brucia dallo sguardo indifferente
che una lontra assorta tra le acque spumose,
fango di fiume adesso scorre.
La marmotta fischia l’ultima parola di un suono rimasto.

Quattro paesaggi - III

 

Ogni clamore è spento –
nella penombra sconosciuta i leoni immemori del Duomo.
La casa vicino alla riva nella sacca di Scardovari
piantata come una foglia dorata dell’autunno
al confine di questa Emilia, la terra fra le acque
e la pietra immobile dell’edificio corroso del mezzo
di un lago (o freddo fiume, ancora?), e l’erba alta
verdeggiante, il cielo azzurro come l’acqua

senza più confine.

Quattro paesaggi - IV

 

La strada verso il mare, la pioggia
di una mattina sull’Adriatico,
salmastro forte e acqua verde dentro
quei due cani neri sulla spiaggia come uomini
a innamorarsi e arbusti tra i piedi, sassi,
liste d’alghe, la grande barca non ancorata alla riva
di un cantiere in disarmo, legno nero, sbriciolato,
come un temporale che sfibra

quando il primo sole emoziona l’estate.

Nel giardino


Nel giardino davanti alla finestra
qualcuno ha aperto l'acqua in
un momento di silenzio intatto.
Il rumore violento del trapano
ha smesso di perforare la
parete di una casa.  
La bufera ha scoperchiato 
alcuni tetti, ha divelto gli alberi.
Automezzi di soccorso, quando la
luce è tornata e il cielo è ritornato
chiaro, hanno ripulito la strada da
rami, cartacce, tronchi. Alcuni alberi 
hanno distrutto macchine, altri
si sono rovesciati all'indietro colpendo
vitigni, zone d'ombra.

Piccolo spazzacamino


Piccolo spazzacamino
dove sei,
ti cerco tra le nuvole
dei tetti, dall’alto, sopra
la città, sulle antenne delle case
in pericolo, in bilico
e non scivolare sulle grondaie
splendenti di pioggia e freddo.


C’è stata una sera d’agosto
sembrava la fine di tutto
e ti ho osservato (volevo vederti)
tutto nero tra i cornicioni, 
alle spalle delle stelle che dicono infinite.


E tu sei, esisti, nei luoghi
impensabili: una cantina dismessa,
seminterrati polverosi,
la tua scopa è una lancia, sposta
le cose, pulisce la cenere, 
sai come entrare senza bruciarti 
nel fuoco.


Piccolo spazzacamino,
guida indiana,
tu che superi saltando il vuoto delle case
tu che cerchi le impronte dove non ci sono.

Poetica


La poesia ha bisogno di libertà
ma anche di uno spazio sicuro.


Allora la rinchiudo in un recinto
o dentro un giardino, la delimito


per bene con paletti e aste di ferro
questo dovrebbe servire a proteggere


non impedendo a qualcuno di entrare. 
E' come il muso di una mucca che tocca i fili


elettrici e che prova spavento
e non può scappare. Ma il guardiano


può entrare dentro quel pascolo, 
tutti vi possono entrare


e loro invece, dico le mucche, 
non possono più scappare.


Perchè una volta catturata la poesia
non deve più fuggire, andare per conto suo,


è un mondo a parte dentro il mondo normale
che tutti però possono visitare, sentire, ascoltare. 


Le parole in natura senza arte  
non avrebbero senso


o un senso assolutamente abituale.
L'arte aiuta a potenziare l'attività che si


svolge in quel recinto-giardino dove tutto 
è sempre in azione anche quando vediamo


le bestie ferme a guardare
il cielo, la luna, le nuvole volare. Scattano


quando qualcuno tocca l'erba
del prato segna con il passo un'altra strada


vuole vedere le cose da quella strana collina.
Poi arriva la notte. Allora il giardiniere


dopo aver pulito tutto quello spazio piccolo 
ma per lui enorme, perchè è solo, cerca 


di riposare, di andare a dormire e ripensa: ho falciato
quelle piante, tagliato con le cesoie
 
un grappolo di more, perchè l'uomo è goloso,
ho pulito le stalle, ho guardato filare il cane,


tutto è rimasto com'era. 
La poesia non ha bisogno 


di niente: se qualcuno vuole entra
e può anche mangiare, essere ospite


in una casetta dentro il grande giardino.
Può vivere per alcuni giorni in un modo


diverso. Oggi nessuno potrebbe davvero vivere
tutti giorni con la poesia, sarebbe troppo


strano sia per lui che per gli altri.
È meglio quindi essere ospitati che ospitare,


così, chi vuole salire fin lassù,
è libero di fare quello che vuole e può andarsene


quando vuole. Invece il contadino-giardiniere
non può fuggire e con lui le sue bestie.

Coltivo, ma ancora per poco


Coltivo, ma ancora per poco, con futile
esibizionismo i miei trentasette anni qui
adagiato come una foca in un luogo ai più
sperduto, sconosciuto, malfamato. L'iris
selvatico mi sorride come per dire cerca, trova,
io che non so neppure il nome definito delle
piante, delle cose e degli animali nascosti:
giovannino col suo fucile da caccia sicuramente
mi avrebbe sparato e il suo cane avrebbe lasciato
il mio corpo moribondo sullo sterrato con 
indifferenza, con indolenza quasi. Così, coi
pochi bagnanti, con qualche coppia libera
di giostrare finalmente i propri marmocchi, con la
sabbia che ha smangiato parte della spiaggia 
— aspetto vivamente i reticolati invernali, il freddo,
le piante semidistrutte dal vento furioso — inseguo
il tramutarsi delle onde in spume scheggianti,
la sagoma della petroliera lontana, gli echi
del disfarsi orientale di case squarciate in due,
dei soldi che non ci sono, o per pochi — così
dicono — i fotogrammi dei politici canaglia.
Mi tengo stretto l'esibizionismo, gli araldici 
occhi di chi guarda il futuro,
le ombre della magnolia sulla strada.


Nota: ‘giovannino’ è Giovanni Pascoli, così veniva chiamato affettuosamente dai suoi familiari e amici.